Articolo di Grazia Zuffa per il Vaso di Pandora Rivista, Vol. XXXII N°1 2025
Mi è stato chiesto di riflettere sui reati di genere, su come questa nuova prospettiva si incroci con l’enfasi attuale sul penale; e infine se e come impatti sull’annoso e delicato problema della non punibilità dell’autore di reato, in questo caso di reato di genere, sulla base di un giudizio di “incapacità di intendere e volere al momento del fatto”. Il reato di genere più noto e terribile è il femminicidio, oggi all’attenzione dell’opinione pubblica.
Scelgo di ragionare a partire dal primo reato di genere su cui il movimento femminile e femminista si è impegnato fino dagli anni Ottanta dello scorso secolo: la violenza sessuale, con l’obiettivo di far risaltare la gravità di un crimine che in precedenza era classificato “contro la morale” e non “contro la persona”. E tanto basti a far comprendere come il codice penale sia stato costruito a partire dal punto di vista del soggetto maschile, nonostante la sua pretesa di “neutralità di genere” sulla base dell’aderenza a una uguaglianza formale. Invece, l’ottica di genere proprio questa “neutralità” contesta: e perciò lavora a decostruire la pretesa universalità di quella che è in realtà l’ottica maschile. Dunque, il riconoscimento della lettura di genere delle istituzioni, in particolare dell’istituzione giustizia, è una vittoria del movimento delle donne.
Di fronte alla violenza sessuale come “catastrofe”
Fatta questa premessa di inquadramento storico e teorico, parto da alcune considerazioni su un film che mi ha molto colpito, anzi di più, che mi ha turbato: “Creature di Dio”, film irlandese di due anni fa. Il turbamento ha a che fare col connubio violenza sessuale- morte, magistralmente rappresentato nell’opera. E infatti al centro del racconto è la violenza sessuale di una giovane donna da parte di un giovane uomo suo amico ed ex partner. I due si conoscono fino da bambini nella piccola comunità di pescatori irlandesi dove vivono. L’episodio precipita in tragedia, sullo sfondo di una radicale divergenza di comprensione e di sentimenti rispetto a quanto accaduto: la sofferenza della donna vittima è esasperata dal mancato riconoscimento da parte dell’uomo di aver agito in mancanza del suo consenso (peraltro la comunità locale, specie nella componente maschile, è in sintonia col giovane uomo). Per la vittima, la violenza diventa una ferita via via sempre più profonda e insopportabile che stravolge tutta la sua vita. Anche la madre del colpevole è coinvolta in un percorso di dolorosa e tragica elaborazione di quanto avvenuto. Il figlio diventa il simbolo di una violenza non emendabile e dunque non accettabile, tale da meritare la morte. E infatti lo lascerà morire annegato ignorando la sua invocazione di soccorso.
Una prima riflessione: il rapporto sessuale subito è rappresentato come un evento assolutamente catastrofico per una donna. La negazione maschile della “catastrofe” della violazione del corpo femminile conduce alla impossibilità di rapporto fra donna e uomo. Se il conflitto non è componibile, si profila uno scenario di guerra: l’altro diventa il “nemico”, come tale va eliminato.
Ho vissuto un femminismo che aveva al centro il conflitto storico uomo-donna. Un conflitto che le donne si assumevano in pieno diventando parte attiva, senza più subirlo passivamente. Non più “vittime” dunque, ma protagoniste di una battaglia (politica) verso un nuovo equilibrio di potere fra i sessi: il tutto in uno scenario di convivenza, radicalmente diverso da quello di guerra, di irrimediabile e perciò mortale inimicizia destinata a sfociare nell’ annientamento del “nemico”.
Molto ci sarebbe dire sulla declinazione “catastrofica” della violenza sessuale. Mi limito a una nota: da quando è iniziata la battaglia femminile per cambiare la legge sullo stupro, il termine “violenza” si è estremamente dilatato. Dalla violenza fisica, alla violenza psicologica, fino alla violenza derivante dall’assenza di “consenso esplicito” al rapporto sessuale (vedi il film francese “L’accusa” del 2021). “Violenza” è diventata una parola onnicomprensiva. Lo scrive Tamar Pitch, notando lo slittamento di linguaggio dal “vecchio vocabolario” -oppressione, disuguaglianza, lotta al patriarcato- al nuovo, dominato dalla “violenza”: parola che non può che richiamare una risposta in termini di giustizia penale, a differenza di oppressione, sfruttamento, patriarcato, “che non possono essere affrontati attraverso uno strumento tendenzialmente riduttivo e semplificatorio come la giustizia penale”[1].
Qui si intravede la saldatura fra l’impegno sempre più massiccio del movimento femminista sul terreno penale e il cosiddetto “populismo penale”, intendendo con ciò la tendenza a ricostruire/rappresentare i problemi sociali come questioni da affrontare attraverso il diritto penale. Per inciso: non è corretto parlare di movimento femminista nel suo complesso perché una parte delle femministe ha sempre criticato la svolta “punitiva”, di scelta della giustizia penale come terreno di advocacy.
In ogni modo, il collegamento fra populismo penale e femminismo impegnato a difendere le vittime dei reati di genere è evidente nella comune enfasi sulla valenza di “risarcimento” morale alla vittima della punizione inflitta al criminale. Sulla scia del pensiero neo liberista, anche la giustizia si “privatizza”: specie per i reati più gravi, sulla scena pubblica del penale gli attori protagonisti (se non gli unici) sono appunto la vittima con i suoi familiari e il colpevole. La torsione morale/simbolica della punizione ha le sue conseguenze sul piano della severità delle pene: tendenzialmente non c’è limite alla pena, poiché questa non sarà mai in grado di risarcire il dolore della vittima o di chi la rappresenta (è questo il doloroso paradosso).
Per i reati di genere, la valenza simbolica acquista un significato in più: la pena severa è invocata quale “riconoscimento” sociale della caratteristica di genere del reato, in precedenza ignorato o sottovalutato nella sua gravità di offesa al soggetto femminile.
Possiamo forse leggere in questa luce anche la sottolineatura del carattere “catastrofico” della violenza sessuale messo in scena in “Creature di Dio”: la profondità dell’offesa subita giustifica la gravità della punizione. Fino all’estremo: chi ferisce mortalmente può aspettarsi la morte. Alla dura punizione corrisponde però un altrettanto severo contrappasso per la vittima: esce ribadita l’immagine – assolutamente tradizionale – della donna come soggetto debole, incapace di superare il trauma della violenza.
Il linguaggio del penale, il linguaggio della soggettività
Proprio questa immagine di debolezza femminile ci suggerisce una seconda pista di riflessione: avendo presente che la stagione del neo populismo si accompagna al neo conservatorismo, che rilancia i valori tradizionali (in primis la famiglia, con inevitabilmente il ruolo storico della donna al centro). Sorge dunque una domanda: quanto il vissuto di insopportabile catastrofe corrisponde a una crescita di soggettività femminile, che percepisce oggi come “violenza” un rapporto senza il suo consenso esplicito, seppure senza costrizione (esplicita) da parte maschile? In altre parole: l’idea che ci sia un consenso implicito al rapporto sessuale a meno che la donna non lo neghi esplicitamente rappresenta un assunto maschile che le donne si rifiutano oggi di avallare, rivendicando la propria ottica su ciò che è/non è violenza e mettendo in scena la propria sofferenza? Oppure il vissuto di “catastrofe” è ancora legato al “vecchio” concetto di “inviolabilità” del corpo femminile (inviolabile da altri uomini perché solo “a disposizione” dell’unico uomo che la “possiederà” e la designerà come madre dei suoi figli)?
A mio avviso, c’è indubbiamente una diversa e più matura soggettività femminile nel volere un rapporto in cui l’uomo è chiamato a capire e a confrontarsi, rispettandolo, col desiderio femminile: contro la vecchia supremazia patriarcale del desiderio maschile che “si impone” sul corpo femminile; e per arrivare a un incontro di corpi desideranti, si potrebbe dire. Ma ciò prefigura un terreno di scavo soggettivo, per capire dove va il desiderio femminile innanzitutto (“autocoscienza” si chiamava non a caso la ricerca su di sé delle donne in una relazione di scambio con altre donne).
E conduce a un altro interrogativo: davvero un soggetto femminile più consapevole e più forte può acconciarsi nei panni stretti della vittima che patisce la violazione del corpo come un affronto irrimediabile? Oppure proprio una maggiore consapevolezza di sé nel deciso rifiuto a considerarsi “puro corpo oggetto” (del possesso maschile) può aiutarla a padroneggiare la sofferenza, ridimensionando psicologicamente “l’offesa”? Il che, sul piano penale, non significa affatto declassare il reato né rinunciare alla giusta e proporzionata punizione del colpevole, naturalmente.
Un’ultima annotazione. Ancora una volta, il linguaggio parla da sé. Nell’ottica della soggettività, incontriamo la parola “desiderio” che introduce al continente, largamente inesplorato, del desiderio femminile; ma anche del desiderio maschile a confronto con donne che non si sentono più “corpi a disposizione”. Seguendo il linguaggio del diritto, incontriamo la parola chiave del “consenso”; e gli aggettivi “esplicito”/ “implicito” assumono rilievo per segnalare l’ambito e la gravità del reato.
Possiamo tirare una prima conclusione, citando ancora una volta Tamar Pitch, una studiosa che molto si è impegnata sull’approccio di genere in campo penale. “Se diciamo che la violenza sessuale, la violenza nelle relazioni di intimità hanno a che fare col patriarcato, allora il patriarcato lo sconfiggiamo con la giustizia penale? No, il risultato è rimettere la giustizia penale al centro, supportarla, rilegittimarla..”[2]
E infatti il risultato di cui parla Pitch balza agli occhi, guardando da vicino i casi di femminicidio. Filippo Turetta è stato condannato all’ergastolo. La pena più severa del nostro ordinamento è stata per lui invocata anche da molti e molte che sostengono la battaglia politica per l’abolizione dell’ergastolo. L’ergastolo è riservato ai delitti di sangue gravi che più provocano paura e orrore, pure ciò non ha mai indebolito le ragioni per l’abolizione dell’ergastolo. Di più: è difficile pensare a una abolizione normativa dell’ergastolo, se prima, nella coscienza collettiva, la “necessità” della pena perpetua non si affievolisce e la pratica giudiziaria lentamente non decade. Se però Turetta non fosse stato condannato all’ergastolo, probabilmente molte e molti l’avrebbero letto come una sottovalutazione del reato di femminicidio.
La “normalità” del Male del patriarcato
In altre parole, la visione simbolica del diritto penale applicata ai reati di genere prende il sopravvento fino a travolgere alcuni principi fondamentali del diritto, come il sistema delle garanzie a difesa dell’imputato. Ricordiamo ad esempio le proteste per alcune argomentazioni dell’avvocato difensore di Turetta, giudicate “offensive” nei confronti della vittima. Così come le rimostranze perché i giudici non hanno riconosciuto alcune aggravanti ad una pena peraltro già così estrema. E addirittura il furore contro le parole del padre di Turetta di preoccupazione e conforto per il figlio, giudicate anch’esse lesive della memoria di Giulia (peraltro ignobilmente rubate all’intimità del rapporto padre-figlio). In parole povere, abbiamo assistito alla “mostrificazione” del femminicida Turetta, sulla scia del più canonico populismo penale.
A rigor di logica femminista, ci sarebbe una contraddizione. Il femminicidio è parte della cultura patriarcale, in un continuum di subordinazione della donna fino alla sopraffazione violenta e, all’estremo limite, alla sua uccisione. In questo senso, il femminicida non è un “mostro”, anzi incarna la “normalità” del Male dell’oppressione femminile: da combattere politicamente, verso il riequilibrio di potere fra i sessi. E tuttavia “mostro” lo diventa lo stesso, per la forza della logica del penale. Sia perché il penale deve identificare in maniera rigorosa il reato, con ciò marcando una linea netta fra legalità/normalità e illegalità come anormalità (da cui la tendenza intrinseca alla “mostrificazione” del criminale); sia perché il “femminismo punitivo” ci mette il suo carico, poiché vede nel femminicida il simbolo (odioso) della cultura patriarcale di violenza del maschio sulla femmina: ambedue da mettere al bando.
Sempre a rigore di logica femminista, il femminicida non può essere un “matto”, leggi un infermo di mente incapace di intendere e volere. Anzi, il femminicida capisce anche troppo bene la lezione del patriarcato, tanto da portarla all’estremo limite di esito mortale. E qui non c’è contraddizione alcuna, perché il femminicida raramente (se non mai) è presentato nelle vesti del “folle reo”. La ragione principale è che non si vuole che si sottragga alla punizione che si merita. Soprattutto, per un reato di cui si vuole sottolineare il più possibile la gravità non è tollerabile la negazione di responsabilità.
Si dimostra per questa via, se mai ce ne fosse bisogno, la fallacia e strumentalità della costruzione del “folle reo”, alla base del proscioglimento per “incapacità di intendere e volere”. Per ulteriore verifica dell’inconsistenza culturale e scientifica del “doppio binario”, consiglio di leggere le perizie psichiatriche dei “folli rei”. Ancora pochi anni fa, sulle perizie delle donne destinate all’OPG – e solo su quelle delle donne- si leggevano annotazioni sui loro costumi sessuali: giudicate evidentemente utili per il profilo psichiatrico. Vengono in mente i reparti femminili degli ospedali psichiatrici prima della loro chiusura, affollati di donne ivi rinchiuse come matte per il loro comportamento sessuale non in linea con la morale del tempo. Quel “doppio binario” è davvero un residuo del vecchio manicomio, e altrettanto maleodorante.
[1] T.Pitch (2019), Populismo penale e violenza di genere. Il protagonismo della vittima, in Il populismo penale e la violenza di genere, Atti del seminario promosso dal Coordinamento Contro la Violenza sulle Donne-CCVD, Torino, 21 novembre 2019
[2] Pitch, cit., p.31