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WIT – Women In Transition

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Women In Transition -WIT: progetto pilota di self empowerment per donne detenute

Progetto sostenuto con i fondi Otto per Mille della Chiesa Valdese

 OBIETTIVI DEL PROGETTO 

Promuovere esperienze pilota di gruppi di sostegno fra detenute finalizzati all’empowerment individuale e collettivo, perseguendo i seguenti obiettivi specifici:

  • portare alla consapevolezza i fattori di stress e di sofferenza in modo da permetterne la elaborazione e il fronteggiamento.
  • condurre una ricognizione delle competenze, sia in campo cognitivo che emotivo/relazionale.
  • rivisitare le relazioni familiari, in particolare le relazione coi figli/figlie, area significativa e sensibile dell’esperienza femminile.
  • facilitare la relazione fra detenute.
  • Indagare e facilitare le relazione con le varie figure professionali della quotidianità del carcere.
  • identificare i momenti di crisi, che possono precipitare in atti di autolesionismo, in modo da elaborare strategie di prevenzione.

DESCRIZIONE DEL PROGETTO

Il progetto vuole stimolare una nuova attenzione agli aspetti di “ordinaria sofferenza” legati alla quotidianità del carcere, cercando di lavorare sui vissuti delle donne detenute al fine di ricostruire il filo dell’identità dentro/fuori il carcere, con l’obiettivo di preservare/aumentare la auto-efficacia e la auto-stima, messe sotto scacco dall’esperienza della detenzione. Si inserisce in una prospettiva di costruzione di reti fra diversi soggetti e competenze professionali e di attivazione di “risorse naturali”. Ha le caratteristiche di progetto pilota da sperimentare in due carceri con sezioni femminili, a Firenze-Sollicciano e a Torino-Vallette.
Il progetto prende spunto dalle indicazioni della pur scarsa letteratura in merito alla detenzione femminile, in particolare dagli studi che si sono proposti di interrogare la soggettività delle donne detenute e il loro punto di vista sulla vita carceraria (si vedano in particolare Campelli et al., 1992; Zaitzow, Thomas, 2003; Corston Report, 2007; Ronconi e Zuffa, 2014).
Ricordiamo in sintesi gli esiti principali in vista dell’operatività:

  • E’ importante superare la lettura delle donne come gruppo debole/svantaggiato/vulnerabile. Non perché queste caratteristiche non siano purtroppo rappresentate nella popolazione femminile del carcere, ma perché il focus esclusivo su questi aspetti rischia di essere stigmatizzante, perciò ostacolando (invece di favorire) il cambiamento. E’ preferibile una lettura che cerchi di cogliere l’interazione fra individuo e ambiente, alla ricerca dei fattori di stress ma anche dei fattori di protezione. A partire dalle risorse delle persone, in questo caso dalle differenti risorse che il soggetto femminile può mettere in campo, si possono elaborare interventi che su queste si appoggiano in vista del cambiamento.
  • Fra i fattori di stress più rilevanti, si segnalano alcuni elementi squisitamente soggettivi, quali i vissuti di minorazione/depersonalizzazione, relativi alla perdita di ogni forma di controllo su qualsiasi area della vita quotidiana in carcere, nonché sul mantenimento delle relazioni con le persone significative fuori dal carcere (figli, familiari, amici). E’ un aspetto che viene percepito come “sofferenza aggiuntiva” rispetto alla pena prevista della perdita della libertà. Per ragioni storiche legate al ruolo femminile (che non a caso vede le donne spesso accomunate ai minori), il dispositivo di “minorazione” insiste più sulle donne detenute che sui detenuti maschi. Peraltro, gli effetti di “impotenza appresa” conseguenti ai processi di depersonalizzazione sono controproducenti rispetto agli obiettivi di risocializzazione cui la pena dovrebbe guardare.
  • Gli elementi di “sofferenza aggiuntiva” sommariamente sopra descritti sono scarsamente, se non affatto affrontati né nei modelli di organizzazione carceraria e neppure nei modelli trattamentali. Se l’offerta trattamentale in carcere, di formazione al lavoro e di attività culturali, è insufficiente (e sicuramente inferiore a quella offerta nei reparti maschili); ancora più carente è l’offerta alle donne di opportunità per lavorare su di sé, sui vissuti di sofferenza e di colpa da un lato, ma anche sui punti forza, da ricercare nella propria esperienza di vita, dall’altro. Questo lavoro prezioso è in genere confinato nello spazio clinico individuale della prestazione professionale psicologica (riservata ai soggetti con problematiche conclamate), trascurando la dimensione preventiva e proattiva del lavoro comunitario di empowerment, ormai molto sviluppata fuori dal carcere.
  • Valorizzare la dimensione della soggettività femminile, ovvero lo sguardo della differenza femminile sul carcere, può offrire un importante spunto per ripensare il modello organizzativo del carcere e del trattamento in carcere da un lato, per elaborare soluzione alternative al carcere, dall’altro.

Gli obiettivi sopradescritti saranno raggiunti attraverso il modello della action research (ricerca-azione), in 5 step. La ricerca-azione si svolgerà rispettivamente nel carcere di Sollicciano e Le Vallette:

  1. costituzione di un gruppo di ricerca-azione, coinvolgendo le detenute, il volontariato, la direzione carceraria e le varie figure professionali; svolgimento di interviste in profondità alle detenute (minimo di 10 e massimo di 20) e di interviste a testimoni privilegiati (volontariato, direzione, educatrici, agenti, assistenti sociali); analisi delle interviste e restituzione alle detenute. Il primo step di ricerca ha lo scopo di individuare specifici punti-forza e aree problema, nonché di sensibilizzare i diversi attori in vista dell’azione successiva.
  2. attivazione di un gruppo di sostegno fra detenute, condotto da una o più facilitatrici (appartenenti all’associazione promotrice ), con competenze specifiche nel campo. Il lavoro di facilitazione è, in quanto tale, previsto a termine, prevedendo incontri settimanali per un periodo di due mesi. La facilitatrice opera cedendo e socializzando le proprie competenze, in modo da permettere al gruppo di lavorare autonomamente.
  3. organizzare uno workshop di restituzione delle attività svolte ai vari soggetti che operano nel carcere, in modo da stimolare un lavoro di rete fondato sulla collaborazione/integrazione delle diverse professionalità (all’opposto del modello degli “steccati professionali”).
  4. stendere il report sull’attività svolta con linee guida sul modello operativo rivolte a volontari e operatori
  5. organizzare un seminario pubblico con la partecipazione delle istituzioni coinvolte per sostenere un radicale cambiamento dei modelli organizzativi del carcere ed esplorare alternative alla detenzione femminile.

Monitoraggio e valutazione del progetto da parte di esperti esterni (Labcom Onlus, Ricerca e Azione per il benessere psicosociale, spin off dell’Università degli Studi di Firenze).

Progetto sostenuto con i fondi Otto per Mille della Chiesa Valdese

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