Femminicidio, il patriarcato non si combatte con il populismo penale
Appello della Società della Ragione alle Deputate per modifiche essenziali al disegno di legge sul femminicidio
Per la Giornata internazionale della donna di quest’anno, l’8 marzo 2025, il Governo Meloni ha presentato lo schema di disegno di legge governativo “Introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime”, approvato, a seguito di alcune modificazioni, all’unanimità dal Senato e trasmesso alla Camera come ddl n. 2528, ora in discussione.
Il ddl femminicidio rappresenta l’ultimo di una lunga serie di provvedimenti che intervengono sulla violenza di genere con politiche senza risorse, incapaci di contenerla e di prevenirla. Si tratta, prevalentemente, di norme penali che inaspriscono le sanzioni: usi simbolici del diritto penale, ispirati a panpenalismo e securitarismo, vere e proprie norme manifesto. L’assenza di risorse significa mancanza di investimenti nell’educazione al rispetto della persona e al contrasto della cultura patriarcale.
Il testo della nuova fattispecie autonoma è stato corretto al Senato, introducendo, per delimitare più puntualmente la condotta di femminicidio, i concetti di “controllo”, “possesso”, “dominio”, “rifiuto di instaurare una relazione”, “rifiuto di mantenere un rapporto affettivo” o “limitazione delle libertà individuali della donna”. Questi correttivi risultano però del tutto insufficienti e lasciano inalterato l’impianto originario del disegno di legge governativo: la scelta della fattispecie autonoma anziché dell’aggravante, la pena unica e obbligata dell’ergastolo e il riferimento alla donna in una logica rigidamente binaria.
Il nuovo testo si inserirà nel Codice penale di matrice fascista e patriarcale di Rocco, che ancora prevede, nella lettera dell’articolo che disciplina l’omicidio, il riferimento non alla persona ma all’uomo (“chiunque cagiona la morte di un uomo”). Il paradosso è evidente: si nomina il femminicidio, ma, nel caso in cui non si rientri nelle condotte disciplinate dal nuovo articolo 577-bis, la morte della donna viene ricondotta all’uccisione di un uomo.
Siamo perfettamente consapevoli della gravità della violenza maschile contro le donne e della necessità di contrastarla con determinazione. Ma siamo anche pienamente convinte e convinti dell’inefficacia degli strumenti penali se non accompagnati da un cambiamento culturale, dell’ingiustizia dell’ergastolo sempre, della necessità di contrastare il “cattivismo penale” e di implementare interventi di supporto e politiche che agiscano sul piano sociale e culturale.
L’idea di codificare il “femminicidio” come reato autonomo, punito con l’ergastolo obbligatorio, nasce da una volontà simbolica più che giuridica. Si poteva — e si doveva — intervenire introducendo una circostanza aggravante nell’articolo 577 del Codice penale, come accade per altri omicidi aggravati. Invece, si è scelta la strada della pena perpetua automatica, un ritorno alla logica autoritaria del vecchio impianto penale, che nega il principio di proporzionalità e l’individualizzazione della pena.
Una simile norma non tutela le donne: costruisce solo un diritto penale manifesto, che serve a esibire severità più che a garantire giustizia. Dietro la promessa di protezione si nasconde un pericoloso populismo penale, che confonde la lotta alla violenza con la ricerca del consenso attraverso la punizione più dura.
Anche le norme procedurali rendono evidente come la finalità sottesa al disegno di legge di iniziativa governativa sia volta ad enfatizzare il paradigma vittimario, introducendo per la prima volta un’impropria interlocuzione con la persona offesa per ciò che concerne la pena. Una modifica che con ogni evidenza trasforma il reato in un affare privato, come accade in non pochi Stati totalitari e in diversi Paesi negli USA.
Sappiamo che la violenza contro le donne è figlia di una cultura patriarcale radicata nella storia. Ma chi uccide una donna non è un “mostro” separato dal mondo: è il prodotto di quella stessa normalità patriarcale che vogliamo trasformare. Come ha ricordato Grazia Zuffa, il penale tende per sua natura a “mostrificare” il colpevole, tracciando una linea netta tra normalità e anormalità, tra chi appartiene e chi va escluso. Questa dinamica è amplificata da una certa deriva del femminismo punitivo, che rischia di trasformare il femminicida nel simbolo assoluto del male patriarcale da demonizzare. Così la pena diventa vendetta, non giustizia. E un femminismo che accettasse questa logica tradirebbe sé stesso, cedendo all’idea che la liberazione delle donne passi per la disumanizzazione dell’altro.
C’è poi un nodo che riguarda il linguaggio stesso della legge. L’articolo 575 del Codice penale recita ancora: “Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore a ventuno anni.” Nel 2025 è inaccettabile che il valore della vita sia espresso in riferimento al maschile. Se vogliamo davvero introdurre una prospettiva di genere, iniziamo dalle parole: sostituiamo “uomo” con “persona”. Solo così la legge potrà parlare il linguaggio dell’eguaglianza reale, non della neutralità ipocrita.
Per questo ci rivolgiamo a tutte le Deputate della Repubblica italiana per chiedere:
- di non accettare l’approvazione senza modifiche del disegno di legge n. 2528 sulla “Introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime”;
- di eliminare la pena dell’ergastolo come unica pena obbligata;
- di modificare l’articolo 575 del Codice penale, sostituendo la parola “uomo” con la parola “persona”;
- di eliminare l’interlocuzione con le persone offese in caso di richiesta di applicazione pena;
- di eliminare l’estensione ai condannati in via definitiva per il delitto di femminicidio ed altre fattispecie dell’anno di osservazione scientifica della personalità con riferimento ai procedimenti per l’applicazione delle misure alternative alla detenzione ed altri benefici penitenziari, nonché la riduzione della durata massima dei permessi premio ai minori condannati per il reato di femminicidio;
- di eliminare la previsione dell’acquisizione delle dichiarazioni dei prossimi congiunti delle vittime di femminicidio per la concessione dei benefici penitenziari.
Prime firme
Giulia Melani, Tamar Pitch, Maria Luisa Boccia, Patrizia Meringolo, Marisa Nicchi, Monica Toraldo di Francia, Xenia Chiaramonte, Silvia Albano, Stefania Carnevale, Maria Grazia Giannichedda, Susanna Ronconi, Denise Amerini, Letizia Valentina Lo Giudice, Sarah Grieco, Carmen Currò, Katia Poneti, Serena Franchi, Ilaria Baraldi, Sofia Ciuffoletti, Arianna Poli, Stefania Amato, Irene Bregola, Michele Passione, Leonardo Fiorentini, Hassan Bassi, Fabio Militello, Ivan Novelli, Massimo Brianese, Gianfranco Rivellini, Pietro Pellegrini, Vincenzo Scalia, Riccardo De Vito, Stefano Anastasia, Mauro Palma, Franco Corleone, Marcello Stellin, Giovanni Rossi, Sonia Maria Ofelia Testoni, Laura Trentini, Liviana Pambieri, Perla Arianna Allegri, Silvia Fuselli, Giuliana Peyronel, Francesco Racchetti, Rosalba Altopiedi, Francesco Iacopino, Emilio Sirianni, Moreno Biagioni, Maria Gabriella Orsi, Claudia Mantovan, Anna Favi, Maria Teresa Menotto, Giovanni Caprio, Ludovica Cherubini Scarafoni, Attilia Notari, Angelo Ferrarini, Beatrice Bassini, Valeria Torre, M. Grazia Grena, Nicoletta Gandus, Paolo Cervati, Filomena Principale, Pina Sangiovanni, Marcello Pesarini, Alessandro Orsi, Francesca Fiatamone, ferdinando terlizzi, Caterina Pecchioli, Dario Lunardon, Vincenzo Maria Cassaro, Valentina Peri, Marco Sansoè, Giuseppe Mapelli, Barbara Monetti, Clelia Strona, Elisabetta Burla, pietro fattori, Silvia Tozzi, Donatella Ianelli, Marco Oderio, Daniele Barbieri.

