Con questo scritto dell’avvocato Michele Passione, continuiamo nell’osservatorio sulle nostre prigioni al tempo del Coronavirus. Attraverso notizie, testimonianze, riflessioni, offriamo un piccolo contributo per non perdere il filo fra il “dentro” e il “fuori”, ora che la pandemia ha reso ancora più impenetrabili le mura del carcere.
Mi manca l’incontro e la mano da stringere
Di Michele Passione
La Società della Ragione, ci chiamiamo; e allora uno si aspetta che prevalga il pensiero, la riflessione meditata. Del resto, dall’inizio del lockdown ci dicono che questa forzosa distanza dagli altri dovrebbe favorire una presa di contatto con noi stessi.
“Scrivi di noi”, dice Sam a Charlie in Noi siamo infinito.
Così, provo a farlo, facendo parlare il cuore, ché la ragione è annichilita dall’irragionevole profluvio di voci urlanti e provvedimenti extra ordinem.
Ma scrivo di me, perché non ho la presunzione di credere che il mio pensiero sia quello di tutti, e mi guardo bene dall’auguramelo. Mi piace il meticciato.
E tuttavia, poiché non sono una persona speciale, credo che per chi fa questo mestiere, ed ha qualche dimestichezza con la galera, queste poche righe che seguono contengano tracce di storie comuni.
Non l’avrei mai pensato, e mi fa impressione pensarlo, e scriverlo, ma il carcere mi manca.
Quello dopo Cristo, come lo chiamava Sandro Margara (e mi manca anche Lui, tanto); quello che da quasi trent’anni frequento.
Mi manca andare nel posto dove trovo il senso profondo della mia professione, della mia vecchia toga.
Mi manca l’incontro e lo sguardo, la mano che si stringe; il tempo perso nell’attesa che la porta si apra, il clangore quotidiano. Queste cose qui, che sono l’immagine repellente di una Umanità nascosta, cui cerchiamo di dare voce, ciascuno a suo modo.
Solo che, proprio in questo momento, la luce si è spenta, e donne e uomini (e bambini) dentro le mura sono ancora più soli; neanche il virus maledetto fa chinare lo sguardo su quei volti segnati, nell’auspicata empatia che merita un fratello che inciampa. Entriamo sempre meno nelle prigioni; prima ci provano la febbre, per far finta di essere sani. Facciamo processi in remoto, senza vedere e sentire davvero il corpo e la voce di chi è in carcere. Oppure facciamo prima, li rinviamo proprio, naturalmente sospendendo i termini di custodia cautelare dei presunti innocenti.
C’è chi ha pensato che la costrizione forzata alla distanza dall’altro avrebbe favorito un riavvicinamento al senso della libertà, anelito incomprimibile e costituzionalmente tutelato, consentaneo alla natura dell’essere umano, ma per molti benpensanti funziona ancor meglio il capro espiatorio, l’altro da sé.
A me invece tornano in mente le parole meravigliose di Jesmyn Ward, nel suo “Salvare le ossa”, in cui l’arrivo dell’uragano Katrina sconvolge una realtà di miseria, rafforzando ancor di più i legami tra le persone. Mentre i ricchi bianchi si mettono in salvo, sbarrando assi alle finestre per combattere acqua e vento, c’è chi si stringe l’un l’altro ai fianchi per non annegare. Viene in mentre Vittorio Arrigoni, che invitava a restare umani durante le giornate terribili del Piombo Fuso. Vengono in mente le due meravigliose figure de “Le nostre anime di notte”, di Kent Haruf, dove sfidando il pregiudizio due pezzi (due pazzi?) di vita alla fine, ma non certo finita, si prendono per mano, ascoltando il loro cuore.
“Il cuore; fai parlare quello”, mi han detto. “Non so se ci riesco”, ho risposto.
Non so se c’entra con la galera, ma quel muscolo non smette mai di pompare, fuori e dentro le mura.