Onorevoli Colleghi! – Oggi, in Italia, una persona che ha finito di scontare la propria pena può essere sottoposta a un ulteriore periodo di detenzione (indeterminato, se non nella durata massima) in strutture del tutto analoghe a istituti penitenziari: le cosiddette case di lavoro.
Le case di lavoro sono un retaggio del codice penale del periodo fascista, che prevedeva misure amministrative volte a contenere la pericolosità sociale di alcune persone definite «delinquenti abituali, professionali o per tendenza». Nella prospettiva di un codice che riprendeva spinte positiviste e istanze della scuola classica, adottato da un regime autoritario, lo scopo di tali misure era quello di rinchiudere, escludendole dal consesso sociale, persone che per varie ragioni, anche politiche, si ponevano ai margini della legalità. Il lavoro era immaginato come strumento di disciplinamento, utile a cancellare la pericolosità sociale.
Oggi, queste misure appaiono in netto contrasto con la finalità rieducativa della pena, prevista dalla nostra Costituzione. Tale contrasto è ben delineato dalla domanda con cui monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti, apre il suo intervento del 16 aprile 2021, pubblicato in forma di podcast nella sezione «Incontri» della libreria della Corte costituzionale: «Com’è possibile che a settanta anni dalla nostra straordinaria Carta costituzionale noi continuiamo ad avere una così palese contraddizione con i princìpi della Costituzione in una struttura che di fatto viene supportata dallo Stato, la magistratura, la politica?». Una contraddizione intollerabile, che questa proposta di legge intende finalmente sanare.
La giurisprudenza costituzionale è intervenuta in modo consistente sulle caratteristiche delle misure di sicurezza, cercando di adeguarle sempre più ai propri princìpi, come illustra il giudice della Corte costituzionale Giovanni Amoroso (nel citato podcast): «In prosieguo di tempo è stato giurisdizionalizzato il procedimento di applicazione della misura di sicurezza, che non è più un procedimento amministrativo di polizia. C’è un giudice che applica la misura e che può essere chiamato a decidere ogni questione che si ponga durante l’internamento, quale innanzitutto quella della sua cessazione».
Anche il legislatore ha dato il suo contributo, imponendo un limite alla durata massima delle misure (decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 maggio 2014, n. 81).
Tuttavia, non per imperizia ma per impossibilità dell’impresa, non è stato possibile tramutare realmente le misure di sicurezza in un istituto degno dei princìpi e dei valori della nostra Carta costituzionale. In sostanza «si sono fatti – come sostiene il giudice costituzionale Amoroso – passi in avanti anche se, probabilmente ancora insufficienti». Tanto che «gli internati possono essere assoggettati anche allo stesso regime del carcere duro previsto dall’ordinamento penitenziario per i detenuti che abbiano commesso reati di particolare gravità, soprattutto di criminalità organizzata».
Le misure di sicurezza per imputabili sono misure illiberali e del tutto fallimentari. La loro fine è legata al raggiungimento di obiettivi di reinserimento (un lavoro, una casa) che non sono realizzabili all’interno di un’istituzione penitenziaria, tanto più che, come osserva Franco Maisto, Garante dei diritti dei detenuti del comune di Milano e già presidente del tribunale di sorveglianza di Bologna, vi è stata una «trasformazione fattuale della Casa di lavoro: una casa di lavoro senza lavoro!».
Una riforma legislativa è l’unico strumento per poter affrontare adeguatamente questa questione non più rinviabile. Non possiamo infatti continuare a tenere in piedi quello che Francesco Maisto ha definito un rudere che continua ad esistere e a produrre danni, «arrecando sofferenze senza senso».
Le persone internate con misure di sicurezza per imputabili (casa di lavoro) sono un numero esiguo rispetto alla totalità dei reclusi. Si tratta di circa 200 persone (213 al 1° marzo 2021), dislocate in otto istituti, ma prevalentemente ospitate nelle case lavoro di Vasto (80 persone alla medesima data), di Castelfranco Emilia (50 persone) e Aversa (28 persone).
Come ha mostrato la ricerca condotta sugli internati nella casa di lavoro di Vasto nel 2019 dal Garante dei diritti dei detenuti della Toscana (Archeologia criminale, a cura di Franco Corleone), la gran parte degli ingressi è dovuta a quella che Sandro Margara ha definito la «detenzione sociale»: mancanza di alloggio e lavoro, uso di sostanze psicoattive, fattori di precarietà della vita, che vengono tradotti nella prognosi di pericolosità. Questa condizione è anche la base per l’avvicendarsi di misure detentive (casa di lavoro) e misure non detentive (libertà vigilata), poiché basta violare le prescrizioni di quest’ultima per tornare indietro e fare nuovamente ingresso nella casa di lavoro, dando luogo al continuo avvicendamento tra misure di sicurezza detentive e non detentive.
La presente proposta di legge riguarda le misure di sicurezza per soggetti imputabili e parte dalla considerazione che il sistema in vigore ha generato condizioni di privazione della libertà intollerabili in un sistema giuridico di stampo liberale, avente come finalità della pena la rieducazione del condannato.
Le misure di sicurezza per imputabili si pongono in contrasto con i fondamentali princìpi di un sistema penale garantista, dello Stato di diritto e della finalità rieducativa della pena sancita dalla Costituzione, e rappresentano un mero supplemento di afflittività per persone che sono etichettate come delinquenti abituali, professionali o per tendenza, sulla base di valutazioni che si fatica a credere possano trovare posto in un codice penale liberale, come quelle circa l’«inclinazione al delitto» o l’«indole particolarmente malvagia» del reo (articolo 108 del codice penale).
La proposta vuole superare l’esperienza delle misure di sicurezza detentive – case di lavoro e colonie agricole – mantenendo la libertà vigilata, con un regime riformato.
Con questa proposta si eliminano le figure della professionalità nel reato, della tendenza a delinquere e dell’abitualità, per segnare l’allontanamento dalla prospettiva del diritto penale d’autore. Si abroga anche la previsione dell’applicazione della misura di sicurezza per la commissione di «quasi-reati».
Si abrogano le misure di sicurezza detentive. La cancellazione di queste non può generare dubbi circa il loro contrasto con l’articolo 25 della Costituzione, che al terzo comma sancisce: «Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge». Infatti, la dottrina più recente non interpreta questa disposizione come costituzionalizzazione del doppio binario, bensì come estensione del basilare principio di legalità alle misure di sicurezza (si veda, ad esempio, M. Pelissero, Il doppio binario nel sistema penale italiano, in «UNC School of Law»). Inoltre, vale la pena ricordare che qualora questa proposta di legge fosse approvata, rimarrebbero comunque alcune misure di sicurezza, tra cui quelle non detentive e quelle patrimoniali.
Per compiere l’opera di estensione dei princìpi del diritto penale liberale alle misure di sicurezza, con questa proposta di legge si prevede di modificare il regime di applicazione della legge nel tempo previsto dall’articolo 200 del codice penale, rinviando alla disciplina generale di cui all’articolo 2 del medesimo codice.
Si stabilisce, inoltre, che le residue misure di sicurezza si applichino solo in caso di reati di rilevante gravità, quando sussista il concreto pericolo della commissione di ulteriori gravi reati. In particolare, si riformano le ipotesi di applicazione della libertà vigilata, riducendo i casi di applicazione obbligatoria alla sola ipotesi dei casi previsti dalla legge e prevedendo l’applicazione facoltativa per i condannati alla pena della reclusione non inferiore ad anni dieci e per gli ammessi alla liberazione condizionale.
È stato rivisitato il contenuto della misura della libertà vigilata, per la quale si è tenuto conto dell’elaborazione effettuata dal tavolo 11 degli Stati generali dell’esecuzione penitenziaria: essa diviene del tutto diversa da quella in vigore ed è personalizzabile in base al soggetto a cui si applica, con prescrizioni di tipo non vessatorio. Si tratta di una misura di «promozione della libertà», volta al reinserimento sociale e non alla stigmatizzazione, il cui contenuto è l’offerta di opportunità (casa, lavoro, studio). La misura può essere eseguita presso il domicilio o in una struttura comunitaria.
In quanto misura di promozione della libertà, l’applicazione della libertà vigilata viene sottoposta al principio di territorialità nella sua esecuzione, prevedendo che il soggetto destinatario della misura debba adempiere i propri obblighi nel territorio di sua provenienza, nel quale potrà essere assistito dalla relazione con i servizi sociali e sanitari.
Per far sì che la rete dei servizi sia effettivamente operativa, sarà necessario prevedere una sorta di convenzionamento di strutture comunitarie con i comuni e chiare relazioni con la magistratura di sorveglianza e con gli uffici dell’esecuzione penale esterna. Al fine di costruire una rete di strutture comunitarie disponibili all’accoglienza delle persone in libertà vigilata sarà utile anche il contributo della Cassa delle ammende per lo sviluppo dell’abitare sociale.
È importante evidenziare che i casi di applicazione delle misure di sicurezza per imputabili non sono di numero elevato e che, dunque, il carico di attuazione di questa proposta di legge non sarà grande: le persone attualmente ospitate nelle case di lavoro, come sopra si è ricordato, sono poco più di 200 al livello nazionale.
Nella logica della nuova configurazione della libertà vigilata come misura di promozione della libertà, si è prevista la cancellazione dell’obbligo della sua applicazione al condannato ammesso alla liberazione condizionale, per sostituirlo con la possibilità di applicazione facoltativa.
La presente proposta di legge non interviene sulle misure di sicurezza per soggetti non imputabili, non perché si ritenga opportuno lasciarle in vigore, ma per evidenziare la specificità delle ragioni giuridiche che ispirano la riforma qui proposta. Dal punto di vista della tecnica giuridica è dunque necessario lasciare invariata tale parte, nella prospettiva di una riforma della non imputabilità per le persone affette da una disabilità psico-sociale.
Il proponente ritiene che questa proposta di legge, che ripresenta l’atto Camera n. 3456 della XVIII legislatura, possa incontrare un consenso diffuso e una condivisione che la conduca all’approvazione. Questa proposta di legge è nata in seno alla società civile: essa è stata presentata e discussa nel seminario organizzato dalla Società della Ragione a Treppo Carnico nel settembre 2021 ed è stata definita e perfezionata da un gruppo di lavoro, composto da Stefania Amato, Antonella Calcaterra, Franco Corleone, Giulia Melani, Michele Passione, Katia Poneti e Grazia Zuffa.
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