Come spesso accade, grazie a una sentenza di un giudice o di una Corte si impone sulla stampa e nella società un dibattito sui cosiddetti temi sensibili. Pochi giorni fa la Corte d’Assise di Brescia ha considerato un uomo che ha ucciso la moglie “incapace di intendere e volere al momento del fatto” perché in preda a “delirio di gelosia”.
I media hanno parlato di “assoluzione” e presentato il caso come un femminicidio impunito. In realtà la decisione è intervenuta sulla base di una perizia psichiatrica: l’uomo è stato prosciolto ma non rimesso in libertà, bensì sottoposto a misura di sicurezza detentiva per pericolosità sociale (per lui si apriranno le porte della Residenza per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza (REMS) di Castiglione delle Stiviere).
Due questioni si incrociano nel caso di Brescia: il rilievo che ha assunto la punizione e la sua “certezza”, in settori del femminismo; il rapporto fra disturbo mentale e giustizia penale, ancora più scottante dopo la riforma che ha chiuso gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari -OPG.
Per questo è utile discuterne e gli interventi di Maria Virgilio e Katia Poneti aprono il dibattito cui altri e altre si aggiungeranno – speriamo.

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Bisognerebbe innanzitutto domandarsi se oggi abbia ancora senso l’istituto giuridico della assoluzione per non imputabilità. Non abbiamo dati sui numeri degli assassini di donne che invocano a scusante la propria non imputabilità e che, per aver agito in stato di incapacità di intendere e di volere, non vengono sottoposti a pena. Maria Virgilio scrive sulla non imputabilità per femminicidio decisa dal Tribunale di Brescia per la rubrica di Fuoriluogo su il manifesto del 16 dicembre 2020.