Articolo di Michele Passione per il dibattito su Femminicidio e non imputabilità.
Treppo Carnico, settembre 2020; un piccolo gruppo di persone (giuristi, filosofi, psichiatri, etc.) discute e prepara una proposta di legge sul nodo della imputabilità/non imputabilità dell’autore di reato dichiarato incapace di intendere e di volere. Non solo un testo, un articolato, per il superamento del “doppio binario” e la riforma del regime legale dei “folli rei”, ma anche una campagna di sensibilizzazione pubblica ed iniziative da assumere nelle Università.
Brescia, dicembre 2020; la Corte di Assise assolve un imputato (ottantenne) di omicidio pluriaggravato, a causa di vizio totale di mente.
Della sentenza si è già scritto e detto moltissimo, per lo più a sproposito, anche se non son mancate interessanti letture (Maria Virgilio, su il Manifesto, Katia Poneti, su questo sito, Vittorio Manes su Domani) che hanno già disvelato il corto circuito creatosi attorno a questa tragica vicenda (umana, ancor prima che processuale) . Quel che qui interessa è provare a trovare un nesso che lega l’ipotesi di riforma con lo stato dell’arte, liberare la riflessione sull’accaduto da suggestioni e torsioni, evidenziando ulteriori aspetti della decisione della Corte bresciana che, mi pare, non sono stati segnalati nei primi commenti.
Ovviamente, non conoscendo gli atti del processo, tutto quanto si dirà si concentra sulle poche informazioni a disposizione, per come veicolate all’esterno dalla singolare “nota esplicativa” del Presidente della Prima Corte di Assise di Brescia.
Andando con ordine; il Magistrato evidenzia di aver fornito la nota “a chiarimento di possibili interpretazioni fuorvianti….a richiesta del Presidente della Corte di Appello e del Presidente del Tribunale”. Un primo rilievo; l’iniziativa, inusuale, sembra dimentica del secondo comma dell’art.101 Cost, e maggiormente debitrice di una distorta lettura del primo comma della disposizione, secondo la quale “la giustizia è amministrata in nome del popolo”. Così è del popolo (urlante) che il Presidente dell’Assise sembra preoccuparsi, con excusatio non petita volta a placare i leoni da tastiera, e finisce con l’espropriare la stessa magistratura giudicante del suo ruolo (lo ius dicere). Per dirla tutta; non è certo la funzione nomofilattica (talvolta anticipata dalle informazioni provvisorie della Suprema Corte) o quella regolatrice del Giudice delle leggi che ha mosso il Presidente bresciano, quanto l’umana (ma del tutto fuorviante, e pericolosa) preoccupazione di spiegare il perché del suo dire, prima di aver detto, dove si deve (art.546, comma 1, lett.e, c.p.p.).
Ancora; si legge nella nota che l’imputato (detenuto a Milano – Opera, ove esiste un preoccupante focolaio di Sars CoV – 2), ottantenne, con diagnosi di COVID – 19, malgrado l’assoluzione risulta ancora detenuto, in quanto ritenuto socialmente pericoloso e (perciò) destinatario di misura di sicurezza provvisoria in REMS. Dunque, ad oggi, il Sig. Gozzini (il cui cognome rievoca paradossalmente quello di uno dei Padri riformatori del sistema penitenziario), lungi dall’essere curato per le sue condizioni cliniche, risulta detenuto senza titolo. Del resto, non manca chi (un Gip di Tivoli) vorrebbe riportare nelle mani del Ministro il potere di governo delle REMS, consentendo il superamento del numero chiuso, ritenendo che “l’attribuzione costituzionale al Ministro della Giustizia in materia di organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla Giustizia impone che spetti a quest’ultimo la competenza a provvedere in relazione all’esecuzione dei provvedimenti dell’Autorità giudiziaria per motivi di omogeneo, ordinato ed efficace trattamento degli internati nei cui confronti va eseguito il ricovero in REMS” Ma questa (forse) è un’altra storia.
Proseguendo nella lettura, del tutto incoerente appare il richiamo alla revoca della costituzione di parte civile dei congiunti della vittima, quasi ad avvalorare l’idea che la decisione dipenda (o sia comunque resa più comprensibile) da un’iniziativa privata, e non già da una ponderata valutazione pubblica.
In disparte le ulteriori “spiegazioni” fornite (sulle ragioni addotte dalla magistrata requirente per la richiesta di ergastolo), che verranno apprezzate solo con la lettura della motivazione (la sentenza è stata depositata – con largo anticipo sul maggior termine indicato – lo scorso 21 dicembre) , anche l’uso del termine “femminicidio” (di contrasto alla violenza di genere si occupa la L.n.119/2013) appare improprio, malgrado la nota si premuri di evidenziare che nel caso di specie non si sia trattato di “una dinamica sottostante, tipica di un processo di femminicidio” (così avvalorando l’ipotesi che di ciò possa essere chiamato ad occuparsi un processo), dovendosi a tal proposito distinguere tra “l’uccisione di una donna in sé e per sé considerata e l’uccisione di una donna in quanto donna”.
Infine, ancora una nota stonata: la nota ricorda (Al lettore? Al Popolo? Al distratto e arrabbiato bevitore di caffè – da asporto?) che la Corte di Assise di Brescia ha ben chiaro il distinguo tra “movente di gelosia e delirio di gelosia”, tanto da aver irrogato per l’effetto in due diverse vicende processuali la pena dell’ergastolo. Così l’asticella si alza, e attraverso il richiamo terribile alla pena (incostituzionale) perpetua si “spiega” al Popolo che la Giustizia è capace di rigore e di comprensione.
Un corto circuito. Manco a dirlo, immancabile, la richiesta di chiarimenti (poi malamente smentita, come giustamente rilevato dall’Esecutivo nazionale di Magistratura democratica) da parte del Ministro, che ha successivamente dato atto di esserci stata “una mera trasmissione della notizia agli uffici competenti per le valutazioni e gli eventuali accertamenti del caso”. Un presagio, insomma. Quale sia la notizia (un’assoluzione fa notizia?), e soprattutto quali possano essere le “valutazioni” da parte di “uffici competenti” il Ministro non lo spiega, ma non è davvero difficile immaginare il condizionamento che questo intervento può provocare per il futuro.
Ed allora, per provare a orientare la bussola, torniamo in Carnia, ripartendo da lontano, dal 1996, da similari proposte di riforma sul punto.
Ma siccome il tempo scorre, mai invano, e le critiche al sistema vigente vanno riarticolate sulla mutata realtà normativa, occorre “mettere in sicurezza” quanto accaduto nel frattempo (su tutto, la chiusura degli OPG), e compiere il passo per il superamento definitivo di ogni logica custodiale, manicomiale, incapacitante.
Si è detto più volte; occorre passare dalla cura della sicurezza alla sicurezza della cura, attraverso la responsabilizzazione del soggetto, non più oggetto, ma protagonista della sua vita.
Le cose di questo mondo sono sempre più complesse di una “nota esplicativa”, e stanno dentro i percorsi di vita di donne e uomini.
Nel dibattito su questo sito, Katia Poneti ha scritto: Se si abolisse la non imputabilità per le persone con patologia psichiatrica, considerandoli responsabili attraverso la condanna, ma poi curandoli perché ne hanno bisogno, potremmo ricomporre situazioni di questo tipo: indicando chiaramente alla società, tramite la condanna, che quel crimine è gravissimo, e lo è proprio perché nasce, anche, da un approccio patriarcale e gravando l’autore della responsabilità per il fatto commesso, ma nello stesso tempo offrendogli possibilità di cura effettiva. Non sono d’accordo; quando si condanna, come quando si assolve, si dice il diritto, che non ha bisogno di una sola nota per scrivere il testo. Del resto, è col precetto, e non con la sanzione (o il suo contrario) che il Diritto orienta i comportamenti sociali, mentre al Giudice spetta il compito terribile di giudicare un fatto (quel fatto), e mai di curarsi del consenso. Non è dunque per placare gli animi che occorre superare il doppio binario, bensì perché la responsabilità è terapeutica. Affermarlo, anche per il soggetto affetto da una patologia psichiatrica, se del caso riducendo la sanzione e consentendone la cura extramoenia, vorrebbe dire favorire la comprensione del disvalore del proprio agito, incoraggiare un percorso di recupero, preservando la Dignità dell’Uomo e la funzione risocializzante della pena. Anche per questo, a Brescia si è fatto confusione, ma paradossalmente (ex malo, bono?) l’accaduto consente di riprendere la discussione che ci interessa.
Con Musil (L’uomo senza qualità) possiamo pensare che “solo la punibilità è la qualità che fa di [un uomo] un uomo morale [e] si capisce che il giurista deve attaccarvisi con ferrea tenacia”, oppure ritenere che (Schopenhauer, La libertà del volere) “non esiste libertà nelle azioni umane, e la punizione di una persona si può concepire solo come deterrente rivolto al futuro” . Ma è un epitome di Massimo Nobili che ci ricorda (richiamando Schiller, in Maria Stuart) che si danno forze “perverse, che hanno il sopravvento su noi e che ci costringono a gesti malvagi”, però “quando il fatto è compiuto [esse] si dileguano e ci lasciano [soli] eredi” : di sgomento, di una responsabilità che diviene allora individuale, di una pena.
Michele Passione