“L’anno trascorso è stato caratterizzato dalla rilevante incidenza sul trattamento punitivo dei reati in tema di stupefacenti che è derivato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014”, questo ha detto il Primo presidente della Corte di cassazione, Giorgio Santacroce, inaugurando l’anno giudiziario. Come avevamo sostenuto già all’indomani della sentenza, alcuni delicati problemi interpretativi che ne sono seguiti “avrebbero potuto essere evitati o, almeno, ridotti da un tempestivo e coerente intervento del legislatore volto ad adeguare le pene previste in questa materia, tenuto conto del ripristino della differenziazione tra droghe leggere e droghe pesanti e, soprattutto, prendendo coraggiosamente atto della estrema inutilità dell’incremento sanzionatorio stabilito con la legge Fini–Giovanardi”. Ma così non è stato. E in carcere abbiamo visto consumarsi l’esecuzione di pene illegittime, stabilite sulla base di norme giudicate incostituzionali.
Già in due importanti pronunce la Cassazione ha fatto cadere il tabù dell’intangibilità del giudicato, non opponibile al “diritto di libertà contro ingiustificate limitazioni disposte in applicazione di una norma in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo ovvero dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale”, per stare ancora alle parole di Santacroce. Ma, si sa, la giurisdizione è un potere diffuso, e ogni giudice è indipendente nelle sue decisioni. Così non mancano decisioni assurde, che si rifiutano di rivedere la pena in esecuzione perché rientra nei limiti stabiliti dalla vecchia normativa tornata in vigore, senza che sia tenuto in alcun conto il fatto che una detenzione di droghe leggere punita con meno di sei anni di carcere ai tempi della Fini-Giovanardi era un reato poco più che bagatellare, mentre con i nuovi limiti di pena diventa equivalente a un fatto che si merita quasi il massimo della pena. Così, ha ricordato Santacroce, il 26 febbraio le Sezioni unite della Cassazione torneranno ad affrontare la questione dell’intangibilità del giudicato, questa volta proprio in materia di droghe, per “fare un po’ d’ordine nel microsistema sanzionatorio della nuova normativa”.
E, in effetti, un po’ d’ordine serve se il Procuratore aggiunto di Milano, Antonio Robledo, coordinatore dell’ufficio dell’esecuzione penale presso il Tribunale, richiesto di informazioni dal suo Capo, Edmondo Bruti Liberati, su sollecitazione della Garante dei detenuti di Milano, Alessandra Naldi, ha messo nero su bianco la soluzione tartufesca escogitata dalla VI sezione penale della Corte di cassazione e citata anche da Santacroce per motivare il ricorso al giudizio delle Sezioni unite. In base a essa, la pena sarebbe illegittima, appunto, solo nel caso in cui si collochi fuori dalle previsioni penali vigenti. Insomma, se valutate tutte le circostanze del caso, Tizio era stato condannato a cinque anni di reclusione sulla base della Fini-Giovanardi, potendo essere condannato a cinque anni di reclusione anche con la normativa rinnovata, per Robledo (e immaginiamo anche per Bruti, che su questo non obietta nulla al suo aggiunto-antagonista) non c’è problema: era condannato a una pena addirittura inferiore al minimo previsto dalla Fini-Giovanardi, oggi può restare condannato a una pena corrispondente quasi al massimo della (più mite) legislazione in vigore.
La cosa non ha senso e offende il più elementare senso di giustizia. Speriamo che le Sezioni unite della Cassazione chiudano definitivamente questa stucchevole querelle e, soprattutto, che ognuno faccia ciò che deve per porre termine all’esecuzione di pene illegittime.
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