Sul finire della sua vita intensa e appassionata Alessandro Margara, che venerdì e sabato scorso è stato ricordato in un affollatissimo convegno promosso da Franco Corleone, suo successore alle funzioni di Garante dei detenuti della Regione Toscana, usava parlare del “carcere dopo Cristo”, dopo il suo congedo, quando la speranza sembrava aver abbandonato, se non i sentimenti di coloro che lo abitano, quantomeno l’indirizzo politico-amministrativo. Si potrebbe a lungo discutere se mai c’è stato un carcere “giusto”, non discriminatorio nella selezione dei suoi ospiti, universalmente aperto alla prospettiva del reinserimento sociale dei condannati, così come l’avrebbe voluto Margara e come dice l’articolo 27 della Costituzione. Certo è che, il carcere di cui scriveva Margara non è dissimile da quello di oggi: 60mila detenuti, un terzo di stranieri per reati minori, metà direttamente o indirettamente riferibili alla legislazione sulla droga, il 60% dei condannati con una pena da scontare che potrebbe consentire l’accesso alle alternative, ma che viene costretto in carcere fino all’ultimo dei suoi giorni di pena.
Non potendosi pronunciare, nelle procedure giudiziarie, parole apertamente incostituzionali, tipo quelle proferite dal ministro dell’interno pro tempore in occasione della traduzione in Italia di un condannato a lungo latitante (“deve marcire in galera”), oggi come allora il carcere dopo Cristo si affida a retoriche genericamente legalitarie, ma a prassi concretamente discriminatorie, come gli imprenditori politici della paura e una società incattivita vogliono che sia. Questo abuso discriminatorio della legalità passa – non da oggi – dall’uso retorico di una formula, la “certezza della pena”, che contiene in sé una doppia confusione: tra certezza della pena e certezza del diritto e tra certezza della pena e certezza della pena detentiva.
L’aspirazione alla certezza del diritto è indubbiamente un valore imprescindibile della sua funzione sociale: ne va della sua prevedibilità, necessaria a orientare comportamenti conformi così come a giustificare la sanzione di comportamenti difformi. Ma la legittima aspirazione alla certezza del diritto non è sovrapponibile alla richiesta certezza della pena. La pena, infatti, è solo l’ultima delle possibili conseguenze dell’applicazione del diritto in materia penale, al netto della irrilevanza penale del fatto, della messa alla prova dell’imputato, della prescrizione del reato, dell’assoluzione dell’imputato, della prescrizione della pena, tutte soluzioni che corrispondono al valore e alla funzione della certezza del diritto, ma non a quella della certezza della pena.
La seconda confusione è quella tra certezza della pena e certezza della pena detentiva, contro la pluriformità delle modalità esecutive della pena e il principio del carcere come “extrema ratio”. Nell’atto di indirizzo per il 2019 del Ministro Bonafede la certezza della pena viene definita come la “effettiva corrispondenza tra la pena oggetto di condanna definitiva e il percorso dell’esecuzione penale”. Conseguentemente, nel decreto di riforma dell’ordinamento penitenziario ogni riferimento alle alternative alla detenzione è stato sciaguratamente cancellato. Corollario di questa concezione della pena carcerocentrica è l’eterno ritorno dell’identico: un bel piano di edilizia penitenziaria, che – se mai si dovesse realizzare – non risolverà l’inevitabile sovraffollamento, ma lo alimenterà, mettendo a disposizione un maggior numero di carceri da riempire.
Oggi, con la mobilitazione della società civile, l’impegno istituzionale degli enti territoriali e la fedeltà alla Costituzione degli operatori del diritto si può e si deve evitare una nuova catastrofe umanitaria nelle carceri italiane.
stefano anastasia
Il 20 dicembre scorso, proprio in questa rubrica, eravamo stati facili profeti nell’immaginare che il torbido periodo della campagna elettorale avrebbe alimentato un fuoco di fila contro la riforma dell’ordinamento penitenziario. Si erano già levate le proteste di alcuni sindacati di polizia contro la possibilità di garantire anche in Italia il diritto alla sessualità dei detenuti. Si sono aggiunte le trite litanie dei soliti imprenditori della paura sul rischio di una nuova legge salvadelinquenti.
Grazie a improvvide audizioni, le Commissioni Giustizia hanno offerto alle forze della conservazione una tribuna per gettare veleno sulle minime ipotesi di revisione delle preclusioni in tema di benefici penitenziari e alternative al carcere. La proposta del Governo ridà ai magistrati qualche margine di maggiore responsabilità nella valutazione sui singoli casi, ma questa considerazione del ruolo della magistratura di sorveglianza fa paura ai Torquemada contemporanei, secondo i quali permessi e alternative andrebbero concessi solo a chi in carcere non dovrebbe proprio starci, mentre gli altri possono pure morirci. Ma, nonostante tutto, i pareri delle Regioni, delle Camere e, infine, del CSM sono stati complessivamente favorevoli.
Il Coordinamento dei Garanti regionali e comunali dei detenuti ha espresso al ministro Orlando il proprio apprezzamento per la conclusione dell’iter parlamentare e alcune indicazioni per chiudere positivamente questo lungo lavoro che – a partire dagli Stati generali dell’esecuzione penale – ha coinvolto tante energie della società civile. Come Garanti siamo convinti che le osservazioni migliorative possano essere accolte, mentre ogni ipotesi di restrizione della portata della riforma debba essere respinta, a partire dalla reviviscenza di inutili e vessatori impedimenti legislativi ai benefici e alle alternative al carcere. Abbiamo in particolare richiesto che venga raccolta l’indicazione pervenuta dalle Commissioni parlamentari e dalle Regioni sul rispetto del principio della territorialità e sulla qualificazione sanitaria delle sezioni penitenziarie destinate ad accogliere i detenuti con problemi di salute mentale. Per quanto riguarda la delega in materia di affettività in carcere, sollecitata nel parere del Senato, suggeriamo come un significativo passo in avanti possa essere anche il semplice riconoscimento della possibilità di svolgere colloqui non sottoposti a controllo visivo (altro che guardoni!), lasciando a una successiva revisione del Regolamento la concreta disciplina delle modalità di svolgimento di incontri riservati con familiari e terze persone.
Se il Consiglio dei Ministri – convocato per domani – butterà il cuore oltre l’ostacolo, il decreto legislativo tornerà per conoscenza alle Commissioni e dopo dieci giorni potrà essere definitivamente adottato, ancor prima dell’insediamento delle nuove Camere. Ci sono, dunque, i tempi e le condizioni per portare a termine questo primo importante passaggio di riforma. Non sappiamo se nella prossima legislatura il Governo porterà a compimento anche le deleghe ancora in sospeso, a partire da quelle sul lavoro penitenziario e sull’esecuzione penale minorile, già trasmesse dal Ministero della giustizia a Palazzo Chigi, ma siamo di fronte a una occasione che non va perduta per rispondere alle condanne europee per trattamenti inumani e degradanti. Nelle carceri si vive con speranza e trepidazione questo momento e proprio per essere solidali con i detenuti, domani, in attesa della decisione del Consiglio dei ministri, i Garanti territoriali delle persone private della libertà si uniranno a loro in una veglia civile di digiuno per la giustizia e il diritto.
I lavori si aprono con la presentazione di Stefano Anastasia (Presidente de la Società della Ragione) e proseguono con le relazioni di Andrea Pugiotto (ordinario di Diritto costituzionale, Università di Ferrara) sul tema “Per un rinnovato statuto costituzionale degli istituti di clemenza collettiva” e di Vincenzo Maiello (ordinario di diritto penale all’Università di Napoli “Federico II”) sul tema “La clemenza collettiva: una categoria da ritematizzare e una disciplina da riformare”. Segue il dibattito
Venerdì prossimo, 29 settembre, in occasione del secondo anniversario della sua scomparsa, la Casa circondariale e l’Università di Bologna, apriranno al pubblico la biblioteca di Massimo Pavarini nel carcere della sua città. Per volere dei familiari e con il concorso di molti (non ultima la Società della Ragione, che ha devoluto i fondi raccolti con il 5×1000 all’acquisto delle scaffalature lavorate dai detenuti della Dozza per ospitarne i libri), si compie così un desiderio di Massimo. Paradossale lascito, questo, per un abolizionista, salvo che si tenga nel debito conto il doppio movimento che una biblioteca come quella può suscitare in carcere, invogliando gli studiosi della pena a entrarvi (seguendo l’ammonimento di Calamandrei: “bisogna aver visto” per discutere del carcere e delle possibilità di una sua riforma) e stimolando i detenuti a evadere dalla propria condizione attraverso lo studio e la conoscenza. Nel pomeriggio, sempre a Bologna, Studi sulla questione criminale, la rivista che fu di Pavarini e che prosegue la tradizione della criminologia critica italiana, presenterà al pubblico il fascicolo doppio dedicato alla sua sociologia della pena. Sarà l’occasione (e altre ne verranno, speriamo, in molte altre città) per ripercorrere i temi e gli argomenti del pensiero e della ricerca di Pavarini, e di misurarne la rilevanza di fronte ai quesiti e alle sfide di oggi.
Il sistema penitenziario italiano, si sa, sta lentamente scivolando in un nuovo sovraffollamento: in poco più di un anno e mezzo, le persone detenute sono cresciute di più di cinquemila unità, superando la soglia delle 57mila. Il respiro che la sentenza Torreggiani aveva dato al sistema penitenziario italiano, incentivando norme e pratiche per la decarcerizzazione, si è fatto corto e già si sente, in qualche istituto, la reazione di chiusura di un corpo in affanno. Nel frattempo, però, sono al lavoro le commissioni ministeriali che dovrebbero disegnare il nuovo volto all’ordinamento penitenziario, dando traduzione normativa non solo alla delega conferita dal Parlamento al Governo con l’approvazione della legge Orlando, ma anche alle centinaia di proposte e allo spirito riformatore che hanno animato gli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dal Ministro della giustizia all’inizio del suo mandato. Immediato pensare che l’una cosa possa rispondere all’altra, che la riforma dell’ordinamento penitenziario possa ridurre il sovraffollamento e riprendere la strada maestra della decarcerizzazione. E chiunque conosca la realtà del carcere non può che sperare che sia così, e invocare l’argine del diritto e della ragione contro l’abuso della privazione della libertà e della sofferenza inflitta legalmente. Ma il realista Pavarini ci metterebbe in guardia dal coltivare eccessive speranze: il diritto penale è uno strumento determinato politicamente e affidato al consapevole esercizio dei suoi operatori, la cui principale qualità sta nel saper interpretare lo spirito del tempo e la domanda sociale di controllo e di sofferenza penale. Se nella società italiana covano sentimenti di paura e di esclusione, non sarà una norma illuminata a cambiare la sorte del sistema penitenziario e dei suoi ospiti abituali.
Che fare, allora? Rinunciare alle possibilità di una riforma e limitarsi a curare le ferite dei detenuti? No, non credo che neanche questo avrebbe condiviso il pragmatico Pavarini: comunque il diritto è – appunto – uno strumento, e la sua configurazione può agevolare o resistere al suo uso populistico. Facciamola, quindi, questa riforma, sfidando gli imprenditori politici della paura su un’altra idea della giustizia e della convivenza civile.
La legislatura rotola verso la fine e inevitabilmente dà il peggio di sé. Non è la prima volta che accade, ma questa evidenza statistica non ci consola. Questa involuzione, infatti, potrebbe pregiudicare i risultati ottenuti negli anni difficili che sono alle nostre spalle. Ricordiamoli rapidamente: dopo la condanna europea del 2013 per il sovraffollamento inumano e degradante delle nostre carceri, anche grazie ad alcune misure legislative ad hoc, la popolazione detenuta tra il 2014 e il 2015 è diminuita di diecimila unità, tornando a livelli commensurabili con la capienza degli istituti e con la storia penale italiana; nel febbraio 2014 la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi, cancellando le norme più odiose della legislazione sulle droghe; qualche mese dopo viene introdotta la messa alla prova per gli adulti e la legge 81 del 2014 dà il via al superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari e cancella gli ergastoli bianchi delle misure di sicurezza senza fine.
In questi ultimi mesi, invece, l’ansia di “portare a casa” prima del termine della legislatura provvedimenti contestati o di bandiera rischia di compromettere quei risultati e di esporci nuovamente sul crinale dell’abuso del carcere, della pena, del controllo penale e amministrativo. Ne conosciamo la sequenza. Il disegno di legge di riforma dell’intero sistema di giustizia penale, legittimamente perseguito dal Ministro Orlando, porta con sé – tra le altre – la polpetta avvelenata della trasformazione delle nuove residenze sanitarie per l’esecuzione delle misure di sicurezza in tanti piccoli ospedali psichiatrici giudiziari, con il rischio che rientri dalla finestra il manicomio criminale che era stato accompagnato all’uscio dalla sollevazione popolare e istituzionale seguita allo scandalo svelato nel 2011 dalla Commissione d’indagine del Senato sul servizio sanitario. Giustamente il Presidente della Conferenza delle Regioni, Stefano Bonaccini, ha sollevato il problema istituzionale che impone a Parlamento e Governo di concordare con le Regioni modifiche della legislazione nazionale che possono avere un enorme impatto non solo sull’organizzazione dei servizi psichiatrici, ma anche sulla loro stessa filosofia (la trasformazione delle Rems in piccoli Opg farebbe tornare dentro il servizio sanitario nazionale l’esperienza manicomiale rifiutata dalla legge Basaglia). Nel frattempo, il neo-ministro Minniti ha voluto dare il segno della sua assunzione di responsabilità attraverso l’adozione di due decreti-legge sulla sicurezza urbana e sull’immigrazione i cui requisiti di necessità e urgenza appaiono labili, quando non completamente assenti. Molto è stato detto, in queste settimane, sui due provvedimenti. Movimenti e associazioni per i diritti civili hanno legittimamente protestato, ma il Governo sembra intenzionato tirare diritto, anche attraverso l’imposizione della questione di fiducia.
Non bisogna essere uccelli del malaugurio per prevedere che la somma di questi provvedimenti amplierà enormemente la platea delle persone sottoposte a controllo penale per fatti di minimo disvalore sociale e di nessuna pericolosità reale: persone senza fissa dimora o con problemi di salute mentale, consumatori di sostanze stupefacenti, migranti irregolari sottoposti a ogni forma di sfruttamento possibile. Non se la sicurezza sia di destra o di sinistra, ma delle conseguenze reali di questi provvedimenti deve rispondere il governo e la maggioranza che lo sostiene.
Ne discuteremo lunedì prossimo, nella sede romana del Parlamento europeo, in occasione di un’assemblea pubblica promossa da Antigone sul destino degli Stati generali dell’esecuzione penale e dell’assemblea annuale della Società della Ragione.
Toccata e fuga. Finalmente, a un anno dalla formalizzazione della proposta dell’integruppo per la legalizzazione della cannabis, la Camera ne ha iniziato la discussione. Non è poco, ma potrebbe anche essere tutto: tutto ciò che questa legislatura e questo Parlamento si consentiranno di dire su questa annosa e vitale battaglia di libertà. Non è difficile prevederlo, considerato il clima politico che si respira nella discesa verso le prossime elezioni politiche e considerato il fuoco di fila armato dalle destre e dai settori più conservatori del mondo cattolico.
O come se la legalizzazione della cannabis possa comportare un trattamento di favore rispetto all’alcool, e dunque rendere lecita la guida sotto effetto di sostanze stupefacenti. Tutte sciocchezze, ovviamente.
Legalizzare la cannabis non vuol dire consentire comportamenti a rischio per l’incolumità altrui, ma – al contrario – dismettere la parte più odiosa della guerra alla droga, quella che colpisce i ragazzi delle scuole e che costringe malati e anziani signori a rifornirsi sul mercato illegale per le proprie necessità terapeutiche o di benessere individuale.
1.107.051 persone sono state segnalate ai prefetti dall’entrata in vigore della legge Iervolino-Vassalli per possesso di sostanze stupefacenti a fini di consumo personale. Più di un milione di persone costrette a ramanzine e piccole o grandi vessazioni solo perché trovate in possesso di sostanze palesemente non destinate allo spaccio. Ottocentomila di queste, più del 70% del totale, erano in possesso di cannabinoidi. Che senso ha questo spreco di risorse pubbliche per dissuadere o stigmatizzare un comportamento diffusamente accettato nella popolazione?
Che senso ha l’impiego delle ancor più costose risorse della giustizia penale, dall’uso delle forze di polizia a quello del delicato marchingegno processuale, per la repressione di un mercato che può essere regolato per legge?
Giustamente la Direzione Nazionale Antimafia invoca una disciplina che possa limitare il potere di mercato delle organizzazioni criminali e liberare risorse investigative e processuali per perseguire comportamenti ben più gravi.
A settembre, dunque, se ne tornerà a discutere in Parlamento. E si vedrà cosa ne sarà. Certo è che le associazioni, i consumatori, le persone ragionevoli e di buona volontà non possono restare fino ad allora con le mani in mano, per poi lasciare alla cabala delle relazioni nella maggioranza o tra la maggioranza e le opposizioni la chiusura della partita. Ecco allora che a settembre sarà utile far arrivare in Parlamento la proposta di legge di iniziativa popolare promossa dai radicali, dall’associazione Luca Coscioni e da numerose associazioni, corredata da centinaia di migliaia di firme, per dar forza all’impegno dell’intergruppo antiproibizionista e lasciare la porta aperta alla speranza di un cambio di politiche sulle droghe nel segno delle libertà e dei diritti civili.
Stefano Anastasia per il Manifesto del 26 luglio 2016
“E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” (Costituzione della Repubblica italiana, art. 13, co. 4).
E ancora: “il termine «tortura» designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate” (Convenzione Onu contro la tortura, art. 1).
Anche questa volta non sono bastate queste due limpide dichiarazioni, della Costituzione e della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, a indirizzare il legislatore verso la soluzione di questo autentico misfatto italiano. L’assenza, cioè, del reato di tortura dal nostro ordinamento giuridico. Anzi, a dire il vero, il reato c’è. Manca solo la sanzione: sarebbe bastato replicare le parole della Costituzione o della Convenzione nel codice penale e aggiungervi un minimo e un massimo di pena, e gli odiosi casi di tortura, che pure si manifestano, anche quando non li si voglia chiamare come tali, avrebbero avuto la loro equa punizione. E invece no, in terza lettura, dopo averne già discusso una prima volta in commissione e in assemblea, e una seconda volta in commissione e in assemblea – e dopo che la Camera aveva fatto altrettanto – il Senato ha stabilito che fosse troppo presto approvare un provvedimento che attende di essere accolto nella nostra legislazione dal 1988 (data di ratifica da parte dell’Italia della Convenzione Onu). Se non dal 1948 (data di entrata in vigore della Costituzione repubblicana). Eh già, troppo presto. E, così, la discussione sul disegno di legge relativo al delitto di tortura è stata sospesa e rinviata a chissà quando.
Intanto, pendono davanti alla Corte europea dei diritti umani le decisioni sui casi di tortura verificatisi nella caserma di Bolzaneto, durante il G8 di Genova del 2001 – esattamente 15 anni fa – e nel carcere di Asti nel 2004. E l’Italia sarà nuovamente condannata, come nel caso della Diaz (sempre Genova 2001), non solo per la violazione del divieto di tortura e di pene inumane o degradanti, ma anche per l’assenza di un “rimedio giurisdizionale interno” (la fattispecie penale di tortura, appunto).
Le responsabilità ultime, si sa, sono del Ministro dell’Interno che, alla ricerca di un ruolo e di qualche consenso, fa di ogni erba un fascio e confonde la grande maggioranza degli appartenenti alle forze di polizia agli autori di atti di tortura e di violenza su persone loro affidate. Invece di perseguire le responsabilità penali, appunto personali, dei singoli autori di reato, si associano interi corpi dello Stato a pratiche indegne di servitori delle istituzioni. Le responsabilità penultime sono di chi ha accettato un progressivo scivolamento di piani. Sin dall’inizio – e da parte anche di alcuni ultra-sinistri – è stata interdetta la qualificazione del reato come proprio delle forze di polizia o degli incaricati di pubblico servizio. Si argomentava che, estendendone l’applicabilità, avrebbe potuto essere punita anche la tortura tra privati, dei sequestratori o dei depravati, e i pubblici ufficiali avrebbero avuto le loro brave aggravanti. Sì, ma quel primo scivolamento apriva la strada al balletto negazionista. E così siamo finiti a discutere, ancora, di quante volte si possa vessare una persona perché violenze o minacce possano integrare il reato di tortura. E nulla valgono quei mirabili singolari della Costituzione e della Convenzione: “è punita ogni violenza …”; tortura è “qualsiasi atto …”. Inevitabile, a questo punto, precipitare nella fosca aritmetica della enumerazione delle crudeltà.
Inascoltabili, poi, gli argomenti che associano la sospensione ai fatti di Nizza o al pericolo terroristico: il Ministro dell’Interno pensa dunque di fare ricorso a pratiche di tortura per le indagini di terrorismo internazionale? E se accettassimo pure questa scellerata ipotesi sa dirci, il nostro ineffabile ministro, come avrebbe fatto ad applicarla preventivamente all’attentatore di Nizza o all’accoltellatore di Heidingsfeld? Suvvia, perfino da Angelino Alfano si deve pretendere un po’ di serietà.
Al contrario, proprio in queste circostanze, va fatta valere la differenza nella concezione del diritto, tra chi usa la violenza e chi no. Va fatta valere contro i nemici della democrazia e dello stato di diritto e a fronte di pratiche di repressione come quelle di cui siamo testimoni ai confini dell’Europa, nell’Egitto di Al-Sisi come nella Turchia di Erdogan.
Articolo di Stefano Anastasia e Luigi Manconi su il Manifesto del 21 luglio 2016.
Stefano Anastasia su Il Manifesto, 19 aprile 2016
Chissà se il Ministro Orlando avesse in mente una situazione pre-rivoluzionaria, come quella che indusse Luigi XVI a convocare gli Stati generali della Monarchia francese nel 1789. Certo è che una simile consultazione, da parte istituzionale, non c’è mai stata nell’esperienza italiana: circa duecento persone, rappresentative di pratiche e culture diverse, distribuite in diciotto tavoli di lavoro, per dare una prospettiva all’esecuzione penale in Italia. Non fu così nel 1975, quando l’ordinamento penitenziario fu costituzionalizzato, né nel 1986, quando – con la legge Gozzini – se ne tentò il rilancio dopo le chiusure della emergenza terrorismo.
Oggi, come allora, l’intento dichiarato è quello di muovere nella prospettiva della costituzionalizzazione della pena e della decarcerizzazione. L’urgenza è stata data dalla Corte europea dei diritti umani: una sentenza-pilota ha guidato le mosse del Governo affinché l’Italia uscisse dall’aperta illegalità delle condizioni di detenzione riscontrate tra il 2009 e il 2013. È seguita una intensa attività legislativa e amministrativa orientata a ridurre la popolazione detenuta e a potenziare l’esecuzione penale esterna. Raggiunti gli obiettivi imposti dal Consiglio d’Europa, giustamente il Governo ha cercato una linea di indirizzo che potesse consolidare il nuovo equilibrio tra carcere e misure alternative alla detenzione. Da qui gli Stati generali, i cui lavori conclusivi si sono aperti ieri nel carcere romano di Rebibbia.
Pendente è una delega al Governo, attualmente all’esame del Senato, per riformare integralmente l’ordinamento penitenziario. Se verrà approvata, come si dice con espressione abusata, “bisognerà riempirla di contenuti”. Con questo mandato hanno lavorato i diciotto tavoli, nella gran parte orientati alla decarcerizzazione o a una pena detentiva più dignitosa, in un trasparente connubio tra i critici del carcere e i fautori della pena rieducativa. Ora le carte sono in tavola, le proposte sono nero su bianco e tocca all’autorità politica farle fruttare. Anche se qualche tavolo non intende smobilitare, gli Stati generali non si trasformeranno in Assemblea nazionale: nessuna Pallacorda è dietro l’angolo del teatro di Rebibbia. Dietro l’angolo piuttosto, e purtroppo, c’è il solito vecchio demone che ha fatto esplodere le carceri italiane nel ventennio passato: l’uso populistico della pena e del carcere, ultima riserva simbolica di una politica apparentemente priva di altri strumenti di governo della sofferenza sociale.
Ancora ieri il Ministro Orlando se ne è mostrato consapevole, quando ha chiamato in causa quel convitato di pietra pronto ad alzare barricate contro ogni forma di depenalizzazione e di alternativa al carcere. Lo abbiamo visto all’opera non più di qualche giorno fa, quando una giovane donna dall’ammirevole percorso penale è stata richiusa in carcere perché sulla sua pagina Facebook comparivano foto non consone al suo status di colpevole e penitente. Sotto i colpi del populismo penale, politica e magistratura hanno oscillato pericolosamente, assecondando gli umori peggiori. Se non per fare passi in avanti, speriamo allora che le elaborazioni degli Stati generali servano almeno a questo: a non fare passi indietro, a partire dalla soluzione di singolarissimi e concretissimi casi come quello di Doina Matei.
Con un confronto in pubblico nel carcere romano di Rebibbia tra responsabili istituzionali e coordinatori dei diciotto tavoli di lavoro che hanno loro dato vita, si chiudono lunedì e martedì prossimi gli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dal Ministro della giustizia Andrea Orlando. Si è trattata di una forma di partecipazione e di condivisione inedita che ha coinvolto direttamente alcune centinaia di persone (operatori professionali e volontari, studiosi, attivisti e conoscitori del mondo dell’esecuzione penale) nella elaborazione di possibili linee-guida per il futuro del penitenziario.
La necessità era lì, evidente. Dopo la condanna della Corte europea per i diritti umani per i trattamenti inumani e degradanti inflitti ai detenuti in condizione di sovraffollamento, l’intero sistema penale – dagli operatori di strada ai vertici politico-amministrativi – ha lavorato nella direzione della riduzione della popolazione detenuta, con interventi legislativi mirati e con la giusta misura nell’applicazione delle norme incriminatrici e carcerogene. In poco più di due anni la popolazione detenuta è diminuita di circa 14mila persone, salvando il nostro Paese da nuove infamanti condanne. Ma questo risultato è stato il frutto di una eccezionale mobilitazione di tutti gli attori del sistema, altrettanto eccezionalmente sostenuta da una diffusa indignazione nell’opinione pubblica per le condizioni di detenzione riscontrate dalla Corte europea e ampiamente documentate dalla stampa e dai periodici rapporti di Antigone (il prossimo sarà presentato a Roma venerdì). Chiunque abbia seguito l’evoluzione del sistema penitenziario italiano negli ultimi venticinque anni, viceversa sa che il sovraffollamento penitenziario – in Italia come altrove – non è stato frutto eccezionale del caso, ma l’inevitabile conseguenza di un modello sociale e di un sistema politico fondati l’uno sulla esclusione sociale della marginalità e l’altro sulla raccolta di consensi nelle campagne di law and order. La condanna europea (come altre, analoghe decisioni delle corti supreme e sovranazionali in altri Paesi) ha semplicemente registrato la rotta di collisione tra quel modello sociale e i fondamenti dei nostri ordinamenti giuridici, riconosciuti nella dignità di ogni essere umano e nella universalità dei diritti fondamentali della persona. Il sistema ha reagito con prontezza ed efficacia, ma non ci si può nascondere che i risultati raggiunti sono tutt’altro che consolidati. Basti vedere i dati sulle presenze in carcere negli ultimi tre mesi per scoprire che la popolazione detenuta ha ripreso a crescere al ritmo di cinquecento persone al mese. Un segno preoccupante degli esiti che può avere un calo di tensione sulle condizioni di detenzione e, peggio, di nuove – assai prossime – contese elettorali intorno alla “sicurezza dei cittadini”.
Per questo erano necessari gli Stati generali dell’esecuzione penale: per consolidare un orientamento politico e culturale nella direzione della decarcerizzazione e delle alternative all’esecuzione penale detentiva. Pur nella babele delle lingue e nelle differenze culturali e professionali, i tavoli di lavoro hanno mostrato di voler andare in quella direzione. Adesso spetta al Governo e al Ministro fare tesoro di questa elaborazione diffusa, se non per una riforma compiuta del sistema penale e penitenziario, almeno per resistere alle sirene risorgenti del populismo penale che vedono nella centralità del carcere il proprio faro e la propria guida.
Dalla rubrica di Fuoriluogo su il Manifesto del 13 aprile 2016.
E’ così abusato il luogo comune dei “cattivi maestri” che torna utile anche quando i protagonisti non abbiano il pedigree intellettuale per cui l’etichetta fu coniata, né abbiano intenzione di insegnare alcunché a nessuno: vale sempre a impedire la presa di parola di chi abbia alle spalle una condanna, tanto più se il reato era motivato politicamente. Cattivi maestri, quindi, anche Franco Bonisoli e Adriana Faranda, invitati insieme a Manlio Milani, Agnese Moro e Sabina Rossa – parenti di vittime di alcuni tra i più efferati delitti politici degli anni Settanta e Ottanta – a testimoniare la loro esperienza nella iniziativa promossa da Guido Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzuccato. Chi vuole può leggerla nel Libro dell’incontro (Il Saggiatore).
Riemerge così una ferita mai sanata nella storia italiana recente e porta con sé almeno altre due questioni: il ruolo della formazione nell’autonomia della magistratura e quello delle parti offese nel giudizio, nell’esecuzione penale e nella vita libera di chi abbia pagato il proprio debito nei confronti della società.
Lo scandalo suscitato dalla proposta formativa offerta dalla Scuola della magistratura ci ricorda quanto sia ancora viva quella vicenda storico-politica nell’Italia di oggi e dunque dà ragione ai promotori dell’incontro tra autori di reato e familiari delle vittime di quegli anni. D’altro canto, la stessa dedizione degli uni e degli altri a quel faticoso percorso di discussione e di rielaborazione dei loro vissuti non si può altrimenti motivare se non attraverso un bisogno di giustizia e di comprensione che migliaia di condanne inflitte ed eseguite in anni passati non sono riuscite a soddisfare. Forse quella storia resterà come un buco nero nella memoria nazionale e un castigo incessante nei protagonisti e nei loro prossimi congiunti, ma non sarebbe male se vi fosse nella società civile così come nella stessa magistratura una maggiore consapevolezza dei limiti della giurisdizione penale nella composizione dei conflitti e nella riparazione delle offese, siano esse pubbliche, private o le due cose insieme.
Nella soluzione del caso un peso non irrilevante l’ha avuto il Csm e il suo ufficio di presidenza. Come sul Corriere della sera del 12 febbraio scorso ha spiegato Valerio Onida, che fino a qualche settimana fa è stato presidente della Scuola della magistratura, non da oggi corre un conflitto latente sull’autonomia della Scuola nella programmazione della formazione e dell’aggiornamento dei magistrati. Certo è che se il maggior ruolo rivendicato dal Csm si dovesse risolvere in una occhiuta verifica di compatibilità politica della offerta formativa della Scuola, ne verrebbero a perdere tanto la Scuola quanto la magistratura, inevitabilmente indirizzate verso quella «formazione solo tecnico-giuridica, o solo autoreferenziale, “di categoria”».
Infine, anche in questa circostanza – nonostante il ruolo essenziale svolto nel percorso dell’Incontro dalle parti offese (tranquillamente ignorato dai loro presunti difensori) – il paradigma vittimario ha giocato un ruolo censorio nei confronti di alcune persone e di una domanda di conoscenza che pure interessa la collettività. L’innocenza della vittima viene contrapposta all’autore del reato in una sorta di giudizio permanente, ossificando l’una e l’altro in un passato che non passa. In questo modo, se da una parte qualsiasi condanna diventa una condanna a vita, una sorta di capitis deminutio che si risolve solo con la morte del reo, non bisognerebbe sottovalutare gli effetti che quella ossificazione ha sulle parti offese e sulla collettività nel suo insieme: vittime che restano per sempre vittime e comunità interdette da un libero confronto sulla propria storia. Un gioco a somma negativa, in cui tutti perdono qualcosa.