Il 28 giugno scorso, il Tribunale Civile di Roma ha posto fine alla controversia fra l’Amministrazione Penitenziaria e il carcere di Firenze da una parte, e l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali dall’altra, dando ragione a quest’ultima. Materia del contendere era il provvedimento che il Garante, nell’ottobre 2015, ha emesso contro il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e la direzione del carcere, ritenendo che questi avessero violato le norme di tutela dei dati sensibili, a danno delle donne detenute nel carcere di Sollicciano.
Ricostruiamo l’episodio nei particolari. Nell’ottobre 2014, a seguito della morte di una detenuta per overdose nell’istituto fiorentino, la direzione decideva di sottoporre tutte le altre detenute all’esame di liquidi biologici per accertare l’eventuale assunzione di sostanze stupefacenti. Scopo dei test di massa era di procedere a sanzioni disciplinari nei confronti di chi fosse risultata positiva. Il che puntualmente avvenne, perché alle “positive” furono inflitti quindici giorni di isolamento e alcune furono trasferite in carceri lontano da Firenze.
La prima violazione riguarda il consenso al prelievo, le modalità anomale con cui è stato ottenuto e la non corretta informazione circa la finalità del test. L’art.13 del Codice in materia di protezione di dati personali prevede infatti l’obbligo di fornire all’interessata un’informativa completa sul prelievo (se obbligatorio o facoltativo) e sulle conseguenze in caso di rifiuto. E’ risultato che il modulo di consenso era assolutamente inidoneo. Alle donne fu detto che i test sarebbero serviti per le indagini giudiziarie sulla morte della detenuta, non per sottoporle a sanzioni disciplinari. Queste peraltro non sarebbero state comunque legittime, poiché, altra contestazione del Garante, non esiste una norma che permetta il trattamento di dati sensibili a scopo di sanzioni disciplinari.
Altra circostanza di rilievo. La vicenda è stata sollevata dal Garante dei diritti dei detenuti della Toscana. Questi, saputo del fatto, mentre si stavano eseguendo gli esami clinici, avvertiva le autorità sanitarie di comunicare al carcere i risultati solo in anonimato, in modo da rispettare la riservatezza di legge. Raccomandazione disattesa, come si è visto: da qui la segnalazione del Garante dei detenuti al Garante della Privacy.
Le giustificazioni addotte dal carcere sono assai istruttive. Per la direzione di Sollicciano, la situazione gravissima “poteva essere fronteggiata esclusivamente individuando gli utilizzatori di sostanza stupefacente”. Quanto all’informativa carente, supplirebbe “la consegna all’atto dell’ingresso della legge sull’Ordinamento Penitenziario” e “la pubblicazione sul sito web del Ministero” del Regolamento. Infine, il trattamento di dati sensibili a fini punitivi farebbe parte del trattamento socioriabilitativo del detenuto/a.
Tralasciando l’originale (e arrogante) tesi secondo cui i detenuti dovrebbero andare a leggersi le norme che li riguardano su internet (cui non hanno accesso); e lasciando da parte che nessuna delle norme citate dalla direzione, su internet o meno, autorizza ciò che è stato fatto, rimane la questione dell’emergenza per la droga. Ma perché si è preferito sottoporre le donne ai prelievi invece di procedere all’immediata perquisizione delle celle, per scongiurare il pericolo di eventuale altra sostanza pericolosa? Perché, con ogni evidenza, non si voleva tanto prevenire altre overdosi, quanto punire chi aveva consumato. Quanto all’attività socioriabilitativa invocata, siamo sicuri che punizioni irrogate calpestando i diritti delle persone servano a rieducare al rispetto della legge?
Traendo una morale da questa importante sentenza: molto c’è da vigilare sui diritti dei detenuti e le autorità garanti svolgono un compito di controllo prezioso.
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