Giovanni Rossi, psichiatra, commenta la sentenza della Cassazione sulla vicenda di Franco Mastrogiovanni e sulla contenzione per la rubrica di Fuoriluogo per il manifesto del 28 novembre 2018.
Franco Mastrogiovanni morì, legato al letto, il 31 luglio 2009 nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Vallo di Lucania, dove era stato ricoverato in Trattamento Sanitario Obbligatorio, poco meno di novanta ore prima.
La Corte di Cassazione nei giorni scorsi ha depositato le motivazioni della sentenza con cui ha confermato la condanna per sequestro di persona e falso ideologico nei confronti di sei medici e undici infermieri.
Secondo la Corte, la contenzione meccanica non è mai un atto terapeutico. Il medico non può giustificarla con la libertà di cura, costituzionalmente tutelata. Viceversa, nel caso della contenzione, gli compete una specifica responsabilità perché egli più di altri è professionalmente consapevole dei danni alla salute che la contenzione può arrecare.
Priva di qualsiasi valenza terapeutica, ma anzi dannosa per la salute, la contenzione ha una pura finalità “cautelare” diretta a salvaguardare l’incolumità fisica del paziente o di coloro che vengono a contatto con lui. Allorché si configuri un pericolo grave, e tale pericolo sia attuale od imminente. Si tratta di una condizione immediata e momentanea. Per esempio, quando stiamo intervenendo ai bordi di un’autostrada o in cima ad una montagna. Risulta difficile immaginare che tali condizioni si determinino in strutture sanitarie che dovrebbero essere organizzate proprio per impedire che pericoli prevedibili e potenziali si concretizzino.
L’esperienza dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura no restraint dimostra la praticabilità di questa strategia.
Le istituzioni sanitarie e le Regioni dovrebbero emanare precise indicazioni organizzative perché le pratiche no restraint vengano messe in atto in tutte le strutture.
Le organizzazioni professionali dovrebbero sostenere tali indirizzi, che non mettono in discussione alcuna l’autonomia e libertà di cura. Anzi: ciascun professionista, essendo la contenzione meccanica un atto non terapeutico e potenzialmente lesivo per la salute, dovrebbe sentirsi deontologicamente obbligato a vigilare affinché non si determini nessun abuso o utilizzo routinario. Come ricorda la Cassazione anche gli infermieri hanno una propria autonomia professionale e, dunque, nel caso Mastrogiovanni, non avendola esercitata sono stati condannati.
Cade anche l’ultimo baluardo “legale” della contenzione meccanica: il regolamento del 1909 sui manicomi. La Cassazione chiarisce di non ritenere più in vigore quel regolamento. E comunque fa notare che la ratio di quella disposizione fu quella di limitare la contenzione a casi eccezionali. Dunque, nemmeno in quel testo era rintracciabile una qualche autorizzazione a un uso routinario e “terapeutico” della pratica di legare i pazienti.
Infine la Corte prende in esame il motivo per cui inizialmente Mastrogiovanni venne contenuto: eseguire un prelievo di urine. Motivo assolutamente ingiustificato, e non solo per la mancanza di qualsiasi pericolo grave e urgente necessità, ma anche per il fatto che non può esservi alcun obbligo al riguardo ma è sempre necessario il consenso della persona cui l’esame viene proposto.
Le motivazioni della Cassazione portano implicitamente a considerare quanto si abusi di strumenti che limitano la libertà delle persone, anche col ricorso routinario al Trattamento Sanitario Obbligatorio, dimenticando quanto dovrebbero essere personalizzati e giustificati tutti i passaggi che portano al Tso; o con l’eccessivo uso degli Accertamenti Sanitari Obbligatori, che rappresentano una “via breve” per mettere in atto il controllo senza che lasciare traccia. E ci interrogano sul ruolo di garanzia che dovrebbero svolgere le diverse figure a ciò dedicate, a partire dal Sindaco, nei confronti delle persone in difficoltà per ragioni di salute mentale. A tutela della libertà personale, dell’integrità fisica, della dignità umana.
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