Il capo dello Stato dovrebbe intervenire dopo lo scontro di un esponente del governo e di un rappresentante del Csm. L’articolo di Franco Corleone su il Riformista del 6 maggio 2020.
Una volta ci si lamentava che Porta a porta di Bruno Vespa costituisse la Terza Camera, oggi con la crisi conclamata del Parlamento ci si è ridotti alla copia riveduta e scorretta di un giornalista che preferisco non nominare.
Durante una trasmissione televisiva il magistrato Nino Di Matteo che fa parte del Csm e il ministro della Giustizia Bonafede si sono esibiti in un duetto sgangherato sulla mancata nomina di Di Matteo a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nel 2018.
Non si capisce la ragione della rivelazione dopo due anni, ma se viene fatta da chi vive di teoremi e complotti, non può essere casuale. Forse si tratta della ripicca per la mancata seconda offerta dopo le dimissioni di Basentini, messo sulla graticola per una presunta responsabilità nella scarcerazione di alcuni detenuti eccellenti per gravi patologie.
Altre erano le responsabilità del vertice del Dap che di fronte a una vera possibile emergenza sanitaria annunciò misure restrittive senza alcun dialogo e provocò rivolte in più di venti carceri come non accadeva da cinquant’anni. Una vera Caporetto che non ha ancora trovato una soluzione di monitoraggio, prevenzione e cura: solo la fortuna ha evitato che in galera non si sia verificata un’ecatombe simile a quella toccata agli ospiti delle case di riposo.
Le misure nei decreti per ridurre il sovraffollamento sono state timide, prudenti e condite con il rilancio del rassicurante braccialetto (in realtà cavigliera), fi no ad ora noto solo per lo sperpero di denaro pubblico.
In realtà nelle celle si continua ad essere troppo vicini e con condizioni igieniche e sanitarie deplorevoli, con i lavandini attaccati alla tazza del cesso.
Ma per le vestali della legalità, questa non è una vergogna sesquipedale da eliminare immediatamente. Lo scandalo si concretizza quando alcuni magistrati di sorveglianza decidono l’incompatibilità con la detenzione domiciliare per alcuni detenuti di calibro gravemente malati e prossimi al fine pena. Nessuna considerazione per 13 detenuti morti, invece. Pietà l’è morta, davvero.
Torniamo al battibecco tra Di Matteo e Bonafede che ha al centro l’accusa al ministro di non avere proceduto alla nomina del magistrato palermitano al capo del Dap per paura delle reazioni dei capi mafia ristretti nelle sezioni del 41bis. La difesa di Bonafede è patetica. Viene svelato un triste mercato per l’occupazione di fondamentali incarichi di responsabilità.
Altro che la vituperata lottizzazione della Prima Repubblica.
Di fronte a questo spettacolo increscioso (miserabile, avrebbe detto Ugo La Malfa), è inquietante il silenzio del presidente della Repubblica che nomina i ministri sulla base di un giuramento che impegna a esercitare le funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione e che è il presidente del Consiglio Superiore della Magistratura.
Nemmeno una parola da parte del vice presidente del Csm David Ermini. Le istituzioni ricevono un duro colpo e la crisi della democrazia dello Stato di diritto pare irrimediabile. Sono solo peccati di omissione o segno di complicità?
Neppure la pandemia fa prevalere il senso di umanità e l’egemonia giustizialista mette nell’angolo il Papa e la sua Via Crucis, la Corte Costituzionale e le sue sentenze, i magistrati garantisti e gli avvocati impegnati con i volontari e i garanti per i diritti.
Manca la politica e un soggetto politico con l’ambizione di perseguire un disegno alternativo al populismo penale.
La “Società della Ragione” che negli scorsi anni si è battuta per la cancellazione della legge Fini-Giovanardi sulle droghe e per la chiusura degli Opg, nella sua assemblea del 30 aprile ha deciso di lanciare una sfida ambiziosa. Ripresentare nel Libro Bianco sugli effetti della legge antidroga a fine giugno una proposta di una riforma radicale; il 29 luglio nell’anniversario della morte di Sandro Margara porre sul tappeto i cambiamenti del carcere per rispettare la Costituzione; infine lanciare una campagna per la modifi ca degli strumenti
di clemenza (amnistia, indulto e grazia) e delle norme del Codice Rocco sull’imputabilità dei malati di mente.
Proprio ora nel fuoco della crisi sociale va scritta con coraggio un’agenda del cambiamento, contro l’arroganza del senso comune e della paura.