Lo scorso 8 settembre, a 92 anni, è scomparso Thomas Stephen Szasz, Professore emerito di psichiatria presso la State University di New York (Syracuse), una delle intelligenze più affilate e curiose del secolo. Szasz è noto soprattutto per il suo Il mito della malattia mentale (Spirali, pagg. 392, € 30,00). Per Szasz, «la malattia mentale è un mito. Gli psichiatri non si occupano di malattie mentali e relativi trattamenti: in realtà, si occupano di problemi personali, etici e sociali che insorgono nel corso della vita».
Nel corso della sua lunga carriera, Szasz ha costantemente riflettuto sull’utilizzo della medicina come formula politica per giustificare la coercizione. Come scriveva già in Legge, libertà e psichiatria (1963), egli ravvisava nella «nascita dello Stato terapeutico» un fenomeno simile e complementare all’affermarsi dei tentativi di legittimazione della coercizione che più avevano avuto successo nella storia: il ricorso al volere di Dio (teocrazia), la volontà del maggior numero (democrazia) o gli ideali di eguaglianza economica (socialismo).
L’ideologia dello Stato terapeutico è una mutazione secolare dell’integralismo religioso: «una volta che l’élite si trova d’accordo sull’aver identificato un vero Dio, o il Bene, ne segue che deve proteggere i membri del gruppo, e anche i non membri, dalla tentazione di adorare falsi dei, o falsi Beni. La versione post-illuministica di questo modo di vedere le cose è la medicalizzazione del Bene».
La psichiatria per Szasz si basa su una eccessiva “presunzione di sapere” cose che in realtà non conosciamo per certo. L’effetto è quello di trasformare le scelte personali, da dilemmi morali, in questioni esclusivamente tecniche: mediche. Un altro importante critico dello “scientismo”, il Premio Nobel Friedrich von Hayek, fece considerazioni non dissimili, chiedendosi se «sono veramente gli psichiatri le autorità competenti per darci nuovi principi morali» (Gli errori del costruttivismo, 1970). La formula politica dello Stato terapeutico ha avuto grande successo, proprio perché è riuscita a situarsi al di fuori del perimetro della tradizionale discussione sulla libertà. Per Szasz, «messo alla prova con il problema della “pazzia”, l’individualismo occidentale era poco preparato a difendere i diritti dell’individuo». Una pratica come l’ospedalizzazione coatta, ritenuta altrimenti intollerabile, venne accettata innanzi allo spauracchio della “malattia mentale”. In epoca moderna, alle streghe si fa regolare diagnosi. «Quando garantiamo ai funzionari medici dello Stato il potere di imprigionare persone innocenti, non c’è alcun modo realistico di prevenire che essi, e i loro superiori, abusino della legge». Il lento emergere delle notizie su come gli ospedali psichiatrici fossero a tutti gli effetti luoghi di “medicalizzazione” dell’opposizione politica nella Germania hitleriana e in Unione Sovietica mise frecce importanti nell’arco di Szasz. Ma egli non pensava che questi fenomeni riguardassero soltanto i regimi totalitari. «La causa primaria della morte è il fatto di essere vivi; quindi, lo Stato terapeutico divora tutte le attività, seguendo l’osservazione apparentemente razionale che nulla cade al di fuori del campo della salute». La “medicalizzazione” della politica erode lo spazio della scelta morale: cosa ingerire, quali sostanze assumere, quanto bere e se fumare, in ultima analisi come vivere la nostra vita sono questioni che vengono sempre più sottratte al ragionare individuale su bene e male.
Autore quantomai prolifico, Szasz non si è mai ritratto dal difendere con convinzione la libertà personale anche sui terreni più scivolosi. In Fatal Freedom: The Ethics and Politics of Suicide (1999), aveva riflettuto sulla più radicale manifestazione della libertà individuale: la libertà di porre fine alla propria vita. Per lo psichiatra di origini ungheresi, esattamente come lo Stato e la professione medica «non interferiscono più con il controllo delle nascite, così non dovrebbero più interferire con il controllo della morte». Suicidarsi è un “diritto”: «su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l’individuo è sovrano», per citare John Stuart Mill. La “prevenzione del suicidio” altro non è che un’altra forma di “coercizione psichiatrica”. Egli affermava la nostra libertà «di decidere quando e come vogliamo morire» rigettando però la legittimazione del suicidio assistito da un medico che è un “bootlegging suicide”, suicidio di contrabbando. In gioco non c’è tanto la libertà di morire, quanto la regolamentazione delle dosi nelle quali gli individui possono assumere determinate sostanze.
Szasz è stato uno studioso solidamente inserito nel solco del liberalismo classico, tanto da aver scritto anche un libro su «principi libertari e pratiche psichiatriche» (Faith in Freedom, 2004). La sua grande lezione coincide col più importante lascito di tradizione di pensiero: nessuno è più pericoloso di chi crede che il fine giustifichi i mezzi.
Alberto Mingardi sul supplemento culturarle de Il Sole 24 ore del 28 ottobre 2012.
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